Secondo cervello

Secondo cervello

Nutrizionismo: è vero solo quello che sa adesso. Quello che lascia sempre un po’ perplessi del nutrizionismo è quel senso di limite legato all’epoca in cui si trova. Quando tutti insistevano su proteine, carboidrati e grassi, qualsiasi condizione di salute poteva spiegarsi con una giusta o sbagliata proporzione di questi tre macronutrienti. Poi sono arrivate le vitamine e altri micronutrienti, e giù pillolone e libroni di biochimica tradotti in pastiglie per guarire qualsiasi cosa. Più di recente, i gloriosi antiossidanti e altre sostanze funzionali hanno sollecitato le fantasie salutistiche di consumatori e studiosi, con un luminoso luna park che va dal resveratrolo agli antociani passando per gli immancabili arabinoxilani e glucosinolati. E guai se un pasto non comprende una generosa dose di carotenoidi. A seconda del momento ci si illude insomma di aver capito tutto, e il riduzionismo deviato incombe: se la ricerca ha certificato dieci punti saldi, tutto il modello nutritivo deve essere interpolato su quei dieci soli punti, e tutto quello che risulta ancora sconosciuto o inspiegabile o non è compreso nel modello viene rifiutato, tacciato di eresia o, se va bene, di essere idee un po’ troppo eccentriche di qualche strano personaggio. Per essere poi integrate prontamente nel modello qualche anno più tardi, quando qualche nuovo studio le eleva agli onori della scienza.

La novità: la nostra pancia non è uno stupido tubo. Per dare un esempio di tutto questo e del fatto che più il modello nutrizionista si affina più l’alimentazione naturale riceve conferme, ecco l’ultima eccitante novità, che da qualche anno si dimostra sempre più interessante: la scoperta della complessità del sistema nervoso enterico, una rete di 500 milioni di neuroni sparsi lungo tutto l’apparato digerente, fortemente interconnessi fra loro ma, ora sembra, anche in dialogo con i batteri intestinali (microbiota), nonché con il sistema nervoso centrale ed il cervello, e dotato di una potente autonomia decisionale e di elaborazione delle informazioni (1). In pratica, a seconda del cibo che ingeriamo, questa gigantesca rete, che io paragono ad una rete neurale, produce una risposta precisa e appresa in millenni di evoluzione, che pilota la produzione di ormoni, secrezioni, motilità intestinale e perfino risposte emotive, in modo del tutto autonomo. Come tutte le reti neurali, il suo comportamento dipende dall’apprendimento, costituito in questo caso dall’insieme di prove ed errori che i nostri antenati le hanno fornito mangiando, e che hanno costruito nel tempo la sua conoscenza tramite l’evoluzione, partendo probabilmente dall’Homo habilis quasi due milioni di anni fa. E come tutte le reti neurali dà il meglio di sé quando riceve in ingresso un insieme di parametri il più possibile simile a quelli già conosciuti, mentre abbozza una risposta solo plausibile se le variabili sono distorte. Tradotto, significa che se mangiamo alimenti che il nostro organismo riconosce, la digestione e la risposta in salute sono le più equilibrate possibili, in armonia con la nostra evoluzione. Idee, come dicevamo, accolte da sberleffi e sorrisetti ironici fino a qualche anno fa, ma adesso guardate con maggiore serietà, e che potrebbero anche intrecciarsi con la nutrigenomica e la nutrigenetica, altro promettente filone di studio che sicuramente darà i suoi migliori frutti fra una decina d’anni, dopo aver subìto la sua trafila di risolini.

Ma la macrobiotica non lo dice da decenni? Ebbene, tutto ciò non vi ricorda quello che la macrobiotica come la intendiamo noi, di tipo naturista, sostiene da sempre quando sintetizza dicendo che l’alimentazione deve essere tradizionale, regionale e stagionale perché più in armonia con il nostro corpo, con la sua evoluzione e la sua storia alimentare? Tre aggettivi che la rete neurale che abbiamo nella pancia gradisce molto di più dei cibi finti, industriali, ricostruiti, trasportati e conservati fino all’accanimento, che generano invece una risposta alquanto scomposta. Insomma, andiamo verso un’ulteriore conferma scientifica dell’alimentazione naturale, con interessanti risvolti: la complessità della rete neurale e del suo collegamento con l’esterno sembra così elevata che potrebbe spiegare anche le più piccole differenze di reazione al cibo, come ad esempio mangiare lo stesso alimento in estate o in inverno, o addirittura mangiarlo da soli o in compagnia. Per non parlare dei vari disturbi finora classificati come “psicosomatici”, che potrebbero essere un segnale di conflitto fra il cervello razionale e quello di pancia, che ancora ragiona in maniera istintiva e strettamente legata alla natura, dalla quale troppi tendono ad allontanarsi. Penso che ne vedremo delle belle.

(1) A chi interessa approfondire: si può partire dagli studi di Keith A. Sharkey, Università di Calgary.

(2) Ma perché molti, invece di allargare la visione delle cose, si ostinano a voler modellare la realtà con le poche cose che hanno, restringendo il campo visivo invece di allargarlo? Dove e perché, in questa nostra cultura, si perde la prospettiva? E’ interessante notare come molte parole che finiscono in –ismo abbiano una connotazione quasi negativa, come se indicassero una sorta di visione volutamente parziale o semplificata di una realtà più complessa. “Riduzionismo” è una parola emblematica in questo senso, come  “Nutrizionismo”  che sembra volere a tutti costi semplificare la nutrizione, che semplice non è affatto. Ma pensiamo anche a certa medicina, che in molti casi sembra aver perso la visione “olistica” di stampo ippocratico per diventare un “mestiere” in cui, con qualche domanda interpolata su qualche sintomo, si pretende di risolvere semplicisticamente l’effetto piuttosto che la causa: in questi casi mi verrebbe da chiamarla “medicalismo”, per continuare il gioco degli -ismi. E pensare che medicina ippocratica, naturismo e macrobiotica sono legati da un forte filone comune… ma questa è una delle prossime storie.

Pubblicato da: pades | 22 gennaio 2013

Premio etichetta del mese (2)

Per saperne di più vedi anche il numero zero.

Qualche giorno fa, andando al lavoro, ho intercettato uno di quei programmi in cui l’esperto risponde alle telefonate degli ascoltatori. Una mamma, preoccupata dopo aver letto di grassi tropicali e idrogenati che possono essere presenti nelle merendine, nei biscotti e in molti altri prodotti, ha chiesto se deve preoccuparsi per suo figlio. Risposta dell’esperto: non si preoccupi, in Europa dei grassi tropicali si usa per lo più l’olio di palma, che rispetto agli altri (cocco e palmisti, nda) è il migliore e perfino meglio del burro, e inoltre i grassi idrogenati non si usano più da anni.

Beh, diciamo che l’esperto era un po’ troppo ottimista, vista anche la condizione pre-esplosione della cartellina dove conservo le etichette furbette… A più di un anno di distanza dall’entrata in vigore della nuova normativa europea sulle etichette alimentari, che ha dato tre anni di tempo alle aziende per normalizzare l’etichettatura, molti produttori (fra cui i più famosi e pubblicizzati che ci inondano di pubblicità con prati verdi, bambini felici e mucche al pascolo) ancora si ostinano a indicare i grassi con un ormai irritante “margarina vegetale”, senza specificarne la provenienza (salvo dirci, bonariamente, “senza grassi idrogenati”). Come faranno fra due anni quando diventerà obbligatorio non si sa. Intanto vediamo qualche esempio che demolisce, ahimè, l’eccessivo ottimismo dell’esperto. Tutte etichette recenti, ovviamente, sugli scaffali al più qualche mese fa.

Il primo riguarda il fatto che si usi per lo più l’olio di palma, che in effetti ha un profilo lipidico simile al burro (ma ancora di più allo strutto, per essere precisi). Qui il produttore ha voluto applicare la par condicio e non fare torto a nessuno, mettendo addirittura tutti e tre i grassi tropicali assieme (cocco e palmisti hanno invece una percentuale di grassi saturi elevatissima). Nella parte italiana manca addirittura la parola “grassi vegetali”, ma è un banale errore di composizione dell’imballaggio…

 

Tartufi con grassi tropicali

Tartufi con grassi tropicali

 

Riguardo invece i “grassi idrogenati che non si usano più da anni”, ecco qua. Qui ho dovuto limitarmi a due, per non saturare il post.

 

Cioccolatini

Cioccolatini

 

Cantuccini

Cantuccini

 

Quello che fa un po’ rabbia è che questi grassi si trovino di solito in prodotti di primo prezzo, in vendita soprattutto in catene tipo discount, il che è ancora più grave perché si approfitta furbescamente della mancanza di informazione più frequente in quei consumatori e del richiamo del basso prezzo. Diciamo che sono prodotti che con un adeguato sistema di informazione sarebbero completamente fuori mercato. Per il momento i regolamenti poco stringenti consentono a produttori e rivenditori di insinuarsi con opportunismo fra una normativa e l’altra e distribuire ancora prodotti del genere, tecnicamente senza violare alcuna normativa, e dunque nella più completa legalità. Da parte nostra ricordiamoci sempre di non dare troppa retta alle facili rassicurazioni e di leggere sempre bene le etichette!

Pubblicato da: pades | 15 gennaio 2013

Supplementi e integratori, altra batosta

Integratori vs cibo vero

Integratori vs cibo vero

Già un po’ di tempo fa volevo scrivere un post sulla (evitabile) bagarre nata intorno ad uno studio sulla relazione fra calcio, supplementazioni del medesimo e malattie cardio-vascolari uscito qualche mese fa su Heart (1), perché mi interessava il polverone mediatico (artificiosamente amplificato) alzato attorno alla faccenda ma, approfondendo, la zuffa era poca cosa di fronte all’ennesima evidenza non solo dell’inutilità, ma della dannosità di integratori e supplementi presi alla leggera, di propria iniziativa e a questo punto anche su prescrizione di professionisti.

Come la penso sugli integratori già lo sapete: assumere con una pillola una sola sostanza, isolata dalle altre migliaia dell’alimento di origine e in concentrazioni paragonabili a chili di quell’alimento non è naturale ed è quindi un azzardo: se vi va bene è inutile, se vi va male sono guai (vedi betacarotene, fibre varie, vitamine in quantità adatte ad un mammut, improponibili minerali, …), soprattutto se sono la scusa, o il mezzo, per evitare di mangiare alimenti integri, verdura, frutta e seguire uno stile di vita il più possibile sano.

Questo caso era interessante perché gli studiosi, tirando le conclusioni dello studio (la cui domanda di partenza è rimasta tale: “al crescere dell’assunzione di calcio aumentano o diminuiscono i rischi cardio-vascolari”?) si sono ritrovati tra le mani un’evidenza statistica non dico inaspettata (numerosi studi avevano già sollevato il sospetto) ma per certi versi (leggi: commercialmente) scomoda, e cioè che le dosi di calcio c’entrano sì e no con la salute cardiovascolare, a meno che il calcio non provenga da integratori, nel qual caso il rischio di infarto si impenna fino ad un +139% per gli integratori di solo calcio (+86% per quelli multi-minerale+vitamine). Se il calcio proviene dagli alimenti, invece, c’è anche un certo effetto protettivo (-31%, addirittura -57% per le donne).

I dati provengono dalla gigantesca indagine EPIC, di cui abbiamo già parlato in passato. In questo caso sono stati elaborati i dati di circa 24.000 tedeschi seguiti per 11 anni, per capire appunto se all’aumentare della quota giornaliera di calcio ci fosse beneficio o danno. Visto che le indagini precedenti non erano riuscite a dare una risposta definitiva, gli studiosi hanno pensato di scomporre l’apporto di calcio in diverse componenti: calcio totale, calcio da latticini, calcio da altri alimenti, calcio da integratori (multivitaminici-minerali o di solo calcio). Il legame con il calcio in generale sembra essere blando, ma un risultato è certo: è statisticamente evidente che il calcio assunto tramite integratori eleva di più del doppio il rischio di infarto (variabili invece i dati su ictus e altre malattie cardio-vascolari). Risulta protettivo invece un apporto di calcio alimentare di circa 800 mg/giorno, in accordo con le linee guida (e con la fisiologia, se avete letto il post sul calcio).

Come si vede da questi estratti di tabelle, anche al crescere della quantità giornaliera e differenziando per provenienza, le medie giornaliere dei vari gruppi sono simili. Quello che fa la differenza, incrociando con i risultati, è proprio solo l’origine: niente problemi per fonti alimentari vere (ad es. verdure, acqua, latticini), grossi problemi con gli integratori (nella seconda tabella, il modello “B” calcola il rischio a medio-lungo termine, eliminando i casi verificatesi nei primi due anni del follow-up: sale addirittura del 170%).

Tabella campione

Tabella campione

Risultati

Risultati

Spiegazioni possibili: un picco troppo elevato di calcio nel sangue con l’assunzione da integratori (spesso a digiuno), che non si verifica con gli alimenti che ne modulano l’assorbimento, e una possibile interazione del picco con il PTH (ormone paratirodeo). Inoltre le dosi prescritte sono spesso enormi (500-1000 mg). I ricercatori non escludono effetti meno negativi in caso di dosi minori e meglio somministrate, ma la cosa “va indagata meglio”.

Dunque che dire? Più gli studi vanno avanti e diventano più precisi e numerosi più viene confermata la linea naturale: Il nostro organismo ha impiegato un paio di milioni di anni ad adattarsi al cibo disponibile, e ogni cambiamento troppo marcato alle naturali proporzioni ed equilibri degli alimenti porta quasi sempre problemi.

Giusto per curiosità, quello che all’inizio mi attirava della vicenda era la querelle (riportata da altri giornali) tra titoli di diverse testate (per la precisione Daily Mail e Telegraph) alimentata da una presunta “poca chiarezza” delle conclusioni dello studio. In realtà, come si può vedere dai titoli, non c’è contraddizione, e in più lo studio, che ho letto completamente e attentamente, è chiarissimo nelle conclusioni. La freccia con il richiamo “don’t panic” sul Telegraph è solo un breve video con il quale la Fondazione Inglese di Cardiologia invita a rivolgersi al proprio medico prima di prendere decisioni avventate o peggio autosospendersi qualche farmaco, non un tentativo di minimizzare il rischio. Forse  faceva comodo affiancare le parole “risultati contraddittori” al concetto che gli integratori (che sono un bel business) siano dannosi, come invece risulta sempre più evidente?

 

Daily Mail

Daily Mail

Telegraph

Telegraph

(1)    Kuanrong Li, Rudolf Kaaks, Jakob Linseisen, Sabine Rohrmann:

 “Associations of dietary calcium intake and calcium supplementation with myocardial infarction and stroke risk and overall cardiovascular mortality in the Heidelberg cohort of the European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition study (EPIC-Heidelberg)”

Heart, Maggio 2012, N.98, pagine 920-925

Pubblicato da: pades | 9 gennaio 2013

Dalla preistoria a Twitter, i guastafeste non cambiano mai

Overshoot Day

Overshoot Day 2012

Una delle differenze più evidenti fra animali e uomo è sicuramente la prospettiva. Se l’animale vive per lo più nell’immediatezza del qui e ora, l’uomo ha sviluppato da circa due milioni di anni la coscienza del domani e degli effetti delle sue azioni sul proprio futuro e su quello del gruppo (con qualche patologica eccezione che si concentra soprattutto fra i nostri attuali politici, ma questa è un’altra storia). L’aggregazione e la coscienza del futuro sono due cose che sono sempre andate a braccetto, e fin dall’Homo habilis del paleolitico hanno favorito all’interno dei gruppi dinamiche sociali che sono rimaste immutate fino ai giorni nostri, così radicate nei nostri geni da diventare istintive, e quindi naturali. Una di queste è la presenza in qualsiasi gruppo sociale di tre categorie di individui: l’impegnato, il soddisfatto e l’opportunista.

L’impegnato è quello che nel gruppo fa più di ciò che impongono le regole, e lavora oltre il necessario per il bene degli altri, apparentemente senza un immediato beneficio. Solitamente è su questi individui che si è basato il progresso della civiltà. Se c’è bisogno di un volontario è quello che fa sempre un passo avanti. Il soddisfatto è quello che nelle regole si trova a proprio agio, le trova giuste e le difende perché sa che, rispettandole, il gruppo resta unito, e questo vantaggio va a beneficio di tutti. Prima di fare un passo avanti si guarda velocemente intorno per vedere se qualcun altro si muove, ma se serve aiuto non si tira indietro. L’opportunista è quello che, pur rispettando quasi sempre le regole del gruppo, trova sempre una scappatoia fra una regola e l’altra per trarre qualche vantaggio per sé o per gli strettissimi congiunti. Nel momento del bisogno fa, senza farsi notare, un passo indietro.

L’equilibrio del gruppo si mantiene grazie al controllo reciproco: l’impegnato tende a non strafare per non passare dall’apprezzamento al risentimento del gruppo, il soddisfatto si bea della sua normalità e vigila sul mantenimento dello status quo, l’opportunista si tiene nei confini del lecito (il crimine è una patologia sociale praticamente sconosciuta nei gruppi in equilibrio) grazie alla disapprovazione manifestata dal resto del gruppo.

Bene, ora che vi siete presi un paio di minuti di pausa per classificare gli amici e tutte le persone che conoscete nell’una o nell’altra categoria, proviamo a guardare queste dinamiche dall’esterno, anzi dall’alto. Il bello infatti è che il modello si può astrarre passando dai singoli individui a gruppi di persone, come un gigantesco frattale antropologico (2). Mammano che l’insieme di individui si allarga, e la storia avanza, queste dinamiche naturali rimangono valide, dai primitivi famiglia, clan e tribù ai moderni gruppi di amici, villaggi, città, popolazioni. Ci sono gruppi di persone impegnate, i gruppi dei soddisfatti (la maggioranza della popolazione) e gli immancabili gruppi di opportunisti (nell’antichità le caste e le corporazioni, oggi le lobby, gli ordini, l’alta finanza, …). Come nel modello “in piccolo”, anche l’equilibrio di queste società si è basato sempre sul controllo reciproco, anche se il gruppo diventava sempre più grande. Dove mancava il controllo personale, viso a viso,  suppliva un nuovo potente mezzo: l’informazione. Lo spasmodico desiderio di sapere sempre cosa fanno gli altri, perché lo fanno, come stanno, come vivono e dove vanno è un bisogno atavico che si basa su quelle dinamiche, che ci portiamo dietro da due milioni di anni e che in fondo hanno lo scopo di mantenere attorno a noi equilibrio e armonia (guarda caso i pilastri della macrobiotica – che non si occupa solo di cibo) tramite un controllo attivo: attraverso l’informazione ogni individuo può manifestare l’apprezzamento o la disapprovazione che mantengono stabile il gruppo.

E’ evidente quanto diventi importante che l’informazione sia il più possibile completa e veritiera, e qui casca, poverino, il proverbiale asino. Inutile elencare i profondi difetti di informazione che affliggono la moderna società, il nostro gruppo più grande. L’informazione è spesso fumosa, di parte, incompleta, e soprattutto in mano a molti opportunisti, che delle tre categorie è quella meno lungimirante. Il gruppo perde così la caratteristica che, come detto all’inizio, ha distinto l’uomo dagli animali: una reale prospettiva.

Il 22 agosto scorso è stato l’Overshoot Day del 2012 (aggiornamento: successivamente ricalcolato al 4 agosto (*)). Il “giorno del superamento” (1) è il giorno dell’anno in cui la popolazione mondiale ha consumato tutte le risorse che la Terra riesce a rigenerare nei dodici mesi. Da quel giorno fino a San Silvestro andiamo a debito, scaricandolo sui nostri figli e sapendo che il pianeta non ce la farà a ricaricarsi completamente per l’anno successivo: abbiamo abbattuto più alberi di quanti ne possano ricrescere, abbiamo pescato più pesce di quello che può rinascere, abbiamo creato più deserto di quello che la natura riesce a rimangiarsi, abbiamo prodotto più rifiuti o CO2 di quanti il sistema possa smaltirne, e così via.

Abbiamo cominciato a fare il passo più lungo della gamba negli anni ’80. Nel 1987 l’Overshoot Day era il 19 dicembre, e solo una decina d’anni dopo, nel 1995, era già arretrato al 21 novembre, per passare poi al 27 settembre nel 2011 e appunto al 22 agosto nel 2012.

Ovviamente non tutti sono responsabili. Se tutti vivessero come indiani e cinesi la Terra ci basterebbe (appena), ma basta essere italiani per aver bisogno di almeno 2,5 Terre, e nordamericani per spazzolarne più di 4. Fosse per gli statunitensi l’Overshoot Day sarebbe intorno a marzo, una follia. Negli anni ’70 la Terra ci bastava ancora, e non si viveva certo sulle palafitte, senza contare che le moderne tecnologie consentono di inquinare e sprecare di meno. Dunque non è colpa del progresso, è solo voler vivere al di sopra delle proprie possibilità, con molto opportunismo di intere nazioni sulle altre, e poca e cattiva, cattivissima informazione di controllo.

La soluzione? Green  economy, etica, mercato equo, ecosostenibiltà, decrescita controllata dove serve, ma soprattutto informazione (Internet in questo aiuta molto – fra poco twitteremo anche noi) e la conseguente cultura. Questa è la strada per riportare un po’ di equilibrio nel gruppo Umanità.

Aspetto commenti e vi lascio con una grande citazione.

Dobbiamo trovare una strada. Se non c’è, la costruiremo. (Albert Einstein)

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(*) Aggiornamenti: l’Overshoot Day viene ricalcolato ogni anno in base ad algoritmi sempre più aggiornati: quello del 2012 è stato così riposizionato (nel 2020) al 4 agosto. Quello del 2013 è caduto il 3 agosto. Quello del 2014 il 4 agosto. Quello del 2015 il 5 agosto. Quello del 2016 sempre il 5 agosto. Quello del 2017 il 1 agosto. Quello del 2018 il 29 luglio. Quello del 2019 sempre il 29 luglio. Quello del 2020, grazie ai lockdown dovuti al Covid-19, è risalito al 22 agosto, facendoci tornare ai livelli di 15 anni prima. Nel 2021, come prevedibile, siamo tornati ai livelli pre-covid, e l’Overshoot Day è stato il 29 luglio. Nel 2022 è caduto il 28 luglio.

(1)    Il  parametro dell’ “Earth Overshoot Day” viene calcolato dal Global Footprint Network, l’organizzazione no profit inglese che calcola l’impronta ecologica che gli umani lasciano sulla Terra. http://www.footprintnetwork.org/it/index.php/gfn/page/earth_overshoot_day/

(2) Frattale: una figura geometrica che è composta a sua volta dalla ripetizione della sua stessa figura in miniatura, in un crescendo simile a tante matrioske .

Pubblicato da: pades | 15 novembre 2012

Ricalcifichiamoci 2, una sintesi

Sintesi

Sintesi, please

Mi hanno scritto in molti, riguardo il post “Ricalcifichiamoci, non è mai troppo tardi”, lamentandone la lunghezza e chiedendone una sintesi di alcuni punti: fabbisogno giornaliero di calcio, biodisponibilità negli alimenti, assorbimento, e infine spiegare meglio la tabella presente nel post.

Il post originale rimane valido come riferimento, compresa la versione “trasportabile” in pdf (che se impaginata a dovere produrrebbe un libretto di una trentina di pagine).

Partiamo subito: quanto calcio ci serve al giorno? Ci servono 300 mg di calcio “netto”, cioè che veramente va a finire nel circolo sanguigno. Ma perché? Anche da adulti quando lo scheletro è già bello che fatto? In una situazione ideale potremmo infatti pensare che, una volta formato lo scheletro, il calcio presente dentro di noi venga continuamente utilizzato, riciclato e ricollocato, come in un perfetto sistema chiuso, ma non è così.

Indipendentemente dalle condizioni delle nostre ossa, la quantità di calcio circolante nel sangue è strettamente controllata: in un individuo di media stazza circa 10 grammi. Come ben sapete il sangue viene continuamene filtrato dai reni, 24 ore su 24. Bene, per quanto i reni facciano il possibile per trattenere tutto il calcio che passa loro attraverso, riescono a trattenerne “solo” il 98%, dunque non proprio tutto: circa il 2% viene perso. Di quei 10 grammi, dunque, 200 mg se ne vanno per motivi fisiologici con la pipì.  Oltre questa “piccola” perdita,  un po’ di calcio se ne va con le secrezioni intestinali e viene eliminato con le feci, un altro po’ con pelle, capelli, unghie che cadono o si consumano: in tutto circa 100 mg. Sommandolo a quello che viene perso dai reni, dunque, arriviamo a circa 300 mg al giorno.

Bene, dunque abbiamo stabilito che ci servono almeno 300 mg al giorno di calcio: vuol dire che guardando le tabelle nutrizionali e sommando il contenuto di calcio di vari alimenti fino ad arrivare a 300 mg sono a posto? No, quello delle tabelle è il calcio lordo, quello che è contenuto nell’alimento. Bisogna vedere quanto di quel calcio è biodisponibile e quanto l’apparato digerente riesce ad assorbirne. I 300 mg che ci servono sono quelli che arrivano “puliti” alla fine del processo di assorbimento.

Per capire meglio, prendiamo un qualsiasi alimento che contenga, per ipotesi, 500 mg di calcio. Parte del calcio può essere legato in molecole che il nostro apparato digerente non riesce a scindere, dunque non tutto quel calcio sarà disponibile. Ipotizziamo per esempio che solo 400 di quei 500 mg siano biodisponibili. Una volta ingerito, poi, il nostro intestino non riesce ad assorbirlo tutto: fra meccanismo attivo (governato da paratormone, calcitonina e vitamina D) e passivo, di quei 400 mg biodisponibili solo 200 mg arriveranno finalmente al circolo sanguigno, e sono quelli i mg che definiamo “netti”. In media, in un adulto sano con una dieta equilibrata, l’assorbimento del calcio oscilla fra il 35 e il 40 % di quello ingerito.

Per avere alla fine 300 mg netti, ne dovremo ingerire con gli alimenti circa 800 mg, che guarda caso è la quantità giornaliera consigliata dalle linee guida per un adulto sano (1000 mg per i ragazzi e gli anziani maschi, 1200 mg per le donne post-menopausa).

Se ci sappiamo giostrare bene gli alimenti, se cioè utilizziamo alimenti nei quali il calcio è più biodisponibile della media, assorbiremo più calcio. Se per contro in certi giorni mangiamo cibi con una scarsissima biodisponibilità ne assorbiremo meno.

Ed è qui che entra in gioco la famosa tabella. Come ricorderete è stata elaborata partendo da molteplici studi e review, mettendo insieme la varie biodisponibilità degli alimenti e l’assorbimento medio da parte nostra, che per complicare le cose varia anche in base alla quantità ingerita nello stesso pasto. In ogni caso, ogni riga della tabella riporta la quantità di alimento necessaria ad assorbire 100 mg netti di calcio, ossia un terzo della dose giornaliera necessaria. Questo vuol dire che se ogni giorno mettiamo insieme tre righe della tabella raggiungiamo sicuramente la quantità di calcio raccomandata. Nella tabella le colonne importanti sono quelle evidenziate, che riportano la quantità dell’alimento che ci fa assorbire i 100 mg netti e le calorie per questa quantità. Alcune righe sono riportate anche per alimenti che in effetti non sono molto convenienti, viste le quantità necessarie o le calorie che dovremmo ingerire (ad esempio servirebbero un paio di chili di spinaci, o un chilo di legumi). Le righe dal sesamo in giù hanno un destino simile: sono riportate come riferimento, ma sono poco praticabili. Ovviamente la tabella non è esaustiva, ma le macro-categorie di alimenti sono facilmente intuibili. Le migliori categorie sono acqua ad alto residuo (Sangemini o simili), crucifere, latticini.

Fonti di calcio

Fonti di calcio (cliccare per ingrandire)

Una necessaria puntualizzazione finale: l’assorbimento del calcio è efficiente se tutto il sistema funziona perfettamente, e una delle cose fondamentali è la quantità sufficiente di vitamina D, che alle nostre latitudini vuol dire soprattutto esposizione alla luce solare all’aperto (vetri e vetrate schermano gli UV-B, i responsabili). Altro aspetto fondamentale: non dobbiamo tenere comportamenti che ci facciano perdere più calcio del dovuto (diete iperproteiche, sale, sedentarietà, ecc.): ben più grave che assumere poco calcio è perderne in eccesso, perché più difficilmente recuperabile. Determinante è poi l’attività fisica, per stimolare il deposito di calcio nelle ossa.

Più sintetico di così non riesco.  :-)

Pubblicato da: pades | 10 novembre 2012

Olive e biscotti

No, non sono impazzito, semplicemente durante la raccolta delle olive abbiamo più tempo libero, il che ci ha consentito di provare una versatile ricetta di biscotti senza burro, uova o latte (già vi piacciono, vero?) ma solo con olio extravergine di oliva. Però andiamo con ordine…

Olive

Olive

Difficile dire quale sia il momento della giornata più piacevole durante la raccolta delle olive, se l’allegra e affollata colazione del mattino (il nostro muesli genera sempre molte curiosità) mentre si guarda fuori per capire se la rugiada asciugherà in fretta dagli ulivi, ammirare la natura durante le pause della raccolta a metà mattina, la soddisfazione nel riporre le cassette piene di olive in magazzino, le serate in compagnia fra scambi di ricette e sperimentazioni culinarie.

Quest’anno, come potete vedere dalle foto (cliccare per ingrandire), il caldo estremo e la mancanza di pioggia dei mesi estivi ha impedito la nascita di gran parte dell’erba e dei fiori di campo nell’uliveto, ma non appena la stagione è diventata favorevole (la pioggia delle ultime settimane) i semi hanno pensato bene di recuperare il tempo perduto esplodendo in una radiosa quanto tardiva fioritura. Questo ha favorito la stesura delle reti (che appoggiate sull’erba non hanno mai toccato il terreno) e ha reso sicuramente più piacevole il lavoro.

Uliveto

Uliveto

Uliveto

Uliveto

Per la cronaca, dalla spremitura a freddo è uscito anche quest’anno un olio strepitoso, più verde del solito, con quasi nulla acidità e dal profumo intensissimo, come se il caldo di questa estate lo avesse concentrato ancora di più. Rinnoviamo più che mai il consiglio (vedi post) di andare per frantoi durante una gita fuori porta e provare l’olio novello appena spremuto. Rispetto a quello che si troverà imbottigliato fra qualche mese c’è la stessa differenza che trovate nell’assaggiare il pane appena fatto e quello del giorno prima… Fra l’altro ho visto che ottime bottiglie di olio novello italiano si trovano per un breve periodo anche nei supermercati. Approfittatene per assaggiarlo (a crudo mi raccomando) e non ve ne pentirete.

Va bene, va bene, direte voi… ma i biscotti quando arrivano?

A proposito di olio di oliva, infatti, avevo promesso tempo fa di farvi sapere come andavano i nostri esperimenti con la pasta frolla a base di olio, dunque senza burro (ricordate la ricetta che mi aveva passato la zia?). Bene, in questi giorni in cui l’attività di raccolta termina verso le 16.30 (appena cala il buio) e il tempo libero serale abbonda, abbiamo coinvolto il piccolo nella produzione di biscotti, che aveva due scopi: il primo provare una variante della ricetta, e il secondo smaltire, utilizzandolo come ingrediente, il contenuto di certe bottiglie di alcolici ricevute in regalo che però ovviamente non beviamo. Utilizzandole infatti in cottura l’alcool se ne va e rimangono i profumi, ottimi per biscotti sempre diversi, e la variante in questione della ricetta prevede appunto l’utilizzo di vini liquorosi, passiti e simili. Noi avevamo un po’ di Amaretto di Saronno e un ottimo passito di Pantelleria. Ma siccome vi vedo già perplessi, è meglio passare alla facilissima ricetta e alle foto del poco che è rimasto dopo l’esperimento…

Biscotti “tutto l’anno” (come li ha battezzati il piccolo, visto che al variare delle stagioni si possono cambiare certi ingredienti)

Dosi per circa 55-60 biscotti

  • 400 g di farina integrale o tipo 2 (in questo caso era di tipo 2)
  • 150 ml di olio extra vergine di oliva
  • 70 g di zucchero di canna integrale moscovado (5 cucchiai scarsi)
  • Mezza bustina di lievito per dolci o cremor tartaro
  • 150 ml di vino liquoroso o liquore profumato (noi avevamo Amaretto di Saronno e passito di Pantelleria e li abbiamo mischiati metà e metà)
  • Una manciata di semi oleosi (pinoli, nocciole, noci, mandorle, quello che volete) grossolanamente spezzati
  • 3-4 cucchiai di uvetta sultanina (variante natalizia imminente: scorze di agrumi e cannella)

(Nel frattempo accendere il forno -non ventilato- a 180°: l’impasto è così veloce che si rischia di finirlo e avere il forno ancora freddo, e mettere a bagno l’uvetta in acqua tiepida).

Abbiamo mescolato gli ingredienti secchi in una grossa terrina (farina, lievito, zucchero moscovado) e abbiamo aggiunto poco per volta mescolando l’olio, e poi l’amaretto e il passito. Abbiamo impastato con le mani per qualche minuto fino ad ottenere una palla consistente e abbiamo poi incorporato i semi oleosi e l’uvetta strizzata. Abbiamo preparato le teglie mettendovi della carta da forno e poi abbiamo staccato dall’impasto via via la quantità necessaria a formare palline grosse come una noce che abbiamo schiacciato sommariamente con le mani per dar loro una forma a biscotto. Abbiamo provato a farne alcuni più fini e larghi e altri più spessi e tozzi, ed erano meglio i secondi perché sono rimasti più morbidi. Disposti i biscotti sulle teglie li abbiamo cotti in forno (come già detto a 180° non ventilato) per 20 minuti esatti. Se vedete che coloriscono troppo copriteli con un foglio di alluminio negli ultimi minuti. Nel nostro caso non è stato necessario.

Ottimi appena fatti, superbi una volta raffreddati. Essendo un amante delle mandorle adoro il profumo dell’amaretto, e nei biscotti era rimasto ben apprezzabile. Ne sono usciti per l’esattezza 56, e alcuni di questi sono nella foto qui sotto.

Biscotti

Biscotti

Pubblicato da: pades | 5 ottobre 2012

Premio Etichetta del Mese (1)

(Per saperne di più vedi anche il numero zero)

Di questi tempi va di moda il corto: la filiera corta, la settimana corta, la memoria corta, ma anche la richiestissima etichetta corta: meno ingredienti ci sono, meglio è. Così, sulla spinta delle esigenze dei consumatori (leggi: o fai così o non ti compro) l’ufficio marketing e la produzione, tirati per i capelli, si adeguano. Ecco l’etichetta (lato ingredienti) molto politically correct di uno yogurt all’albicocca:

(yogurt intero, albicocche 10%, zucchero)

Yogurt

Yogurt

Niente male, vero? Bene, ecco ora l’etichetta dello stesso yogurt della stessa identica marca, ma che si trova nei buffet degli hotel (tipicamente a colazione, da dove l’ho prelevato io), nelle mense, nei self service:

(yogurt intero, zucchero, sciroppo di glucosio-fruttosio, frutta 3% – in questo caso albicocche -, aromi)

Yogurt

Yogurt

Io, nella mia semplicità, a parità di marca e di gusto (sempre all’albicocca era) mi aspettavo gli stessi ingredienti, e invece no. Già mi ero accorto di una differenza: quello da supermercato è di un vago colore aranciato (l’albicocca) mentre il secondo era desolatamente bianco. Una volta letta l’etichetta ho capito tutto: al buffet o in mensa non c’è concorrenza o possibilità di scelta da parte del consumatore, si è in condizione di monopolio, e dunque somministratore (la mensa) e produttore possono agire più in libertà: prezzi più bassi per il primo, costi di produzione più bassi per il secondo, e al consumatore non rimane che prendere quello che passa il convento.

Fra i due gemelli diversi c’è pure una bella differenza: il secondo ha molta meno frutta, più zuccheri totali (sciroppo di glucosio-fruttosio compreso) e ci sono scappati pure gli aromi (certo, portando l’albicocca a dosi molecolari…). Il 3% di albicocca su 125 g è mezzo cucchiaino di polpa per ogni vasetto, diciamo che con una sola albicocca ci si fanno una decina di vasetti. Dunque il 7% della costosissima albicocca del primo vasetto (che ne ha il 10%) è stata sostituita con yogurt, e parte dello yogurt è stato rimpiazzato da ulteriore zucchero. Come si vede dalla tabella nutrizionale, infatti, il tenore di zuccheri alla fine passa dal 13% al 13,8%.

Tenere due linee produttive separate per lo “stesso prodotto” (e dall’etichetta, ve lo assicuro, si vede che lo stabilimento è esattamente lo stesso) costa, dunque è evidente che il gioco vale la candela. Sostituire albicocca e yogurt con zucchero, una commodity (1) ormai di bassissimo costo, può far risparmiare, sui grandi numeri, molto denaro.

Il primo yogurt è quello che vorrebbero i consumatori, il secondo quello che vorrebbe il produttore. Il secondo yogurt, nei banchi frigo del supermercato, non avrebbe scampo. Se leggiamo le etichette.

(1) Commodity: è uno degli aspetti più evidenti della globalizzazione: un prodotto o una materia prima così standardizzati che non importa più chi sia il singolo produttore o da dove venga, e che si scambia sui mercati a prezzi livellati dal mercato stesso. E’ indifferente che lo zucchero venga dal Canada o dalla Cina, visto che è considerato assolutamente identico. Sono commodity anche il mais o il grano, ad esempio (vedi produzione della pasta) o, per molte produzioni, anche il latte.

Pubblicato da: pades | 5 ottobre 2012

Premio Etichetta del Mese (numero zero)

Secondo la CEE sono sempre più una questione di salute pubblica: ma avremo veramente armi più affilate contro i furbetti dell’etichetta?

Etichetta

Etichetta

Leggere le etichette alimentari è sempre stata per me fonte di grande divertimento, e diciamoci la verità: in questi anni fra etichette e confezioni potevamo passare dal comico al tragico nel breve tragitto che va dallo scaffale della pasta a quello dei biscotti. Ma ora la Comunità Europea si è accorta che non è più roba da cabaret: molti problemi di salute pubblica derivanti da un’alimentazione sbagliata possono essere indotti anche da etichette troppo superficiali e “furbe”, e la cosa si è fatta seria. E così il pachidermico apparato si è messo in moto per mettere in riga i produttori e aiutare i consumatori a combattere obesità, cardiopatie, dislipidemìe e diabete per mezzo di etichette oneste, chiare e complete. Almeno, sulla carta, questo si aspettano.

La nuova normativa, in vigore ormai da quasi un anno ma non ancora vincolante (1), si è dovuta gioco forza integrare ai regolamenti europei già esistenti (fin troppo contorti già di loro) e a sopraggiunti tentativi di salvaguardie territoriali (come il made in Italy o il made in France, che  su alimentazione e prodotti tipici vogliono fare da locomotive), senza contare la forte resistenza della grande industria alimentare che ha fatto di tutto per arginare le richieste delle associazioni dei consumatori. Risultato: un regolamento bizantino nel quale, pur avendolo letto, non mi sogno neanche di addentrarmi (anche gli esperti traballano di fronte a certi astrusi commi e distinguo), ma che fornisce qualche spunto utile a chi si avvicina o pratica l’alimentazione naturale e frequenta gli scaffali dei supermercati, o semplicemente a chi vuole conoscere tutto circa quello che sta per mangiare o che sta per dare ai propri bambini.

Leviamoci subito il sassolino dalla scarpa, così non ci pensiamo più: le grandi industrie alimentari, nel perenne tentativo di produrre al costo minimo e dunque con procedimenti ed ingredienti al limite del consentito (pur nella totale legalità), hanno sempre cercato di far trapelare il meno possibile dalle etichette (e spesso anche nascondere), facendo invece gli splendidi e promettendo la Luna nei vari richiami colorati stampati sul lato bello delle confezioni (a proposito: i “claims salutististici” del tipo “fa bene alla pelle” o “migliora la vista” non saranno più consentiti). In questi tempi di economia di mercato molto aggressiva moltissime aziende alimentari sono restate a galla solo riducendo al minimissimo i costi e vendendo al massimo prezzo che il meccanismo di domanda-offerta-concorrenza consentiva, e nel fare questo le etichette “nebulose” sono state un aiuto determinante.

Barattolo

Barattolo

L’etichetta ha sempre rappresentato la finestrella dalla quale i consumatori tentavano di guardare dentro l’azienda che produceva quello che mangiavano, mentre dall’interno il produttore faceva di tutto per rimpicciolire la finestra e rendere il vetro il più opaco possibile. Anche il legislatore ci ha messo del suo: fino a qualche anno fa la Comunità Europea aveva accampato le scuse più strampalate per non rendere le etichette più chiare: dal dover difendere il diritto di qualsiasi azienda europea di produrre ciò che voleva senza rischiare “ingiuste discriminazioni territoriali” (così ci trovavamo le mozzarelle di bufala prodotte in Germania, i bucatini norvegesi o il grana bulgaro) fino a insinuare che il consumatore medio non fosse culturalmente pronto per capire se fosse meglio un biscotto prodotto con l’olio di oliva o con quello di palma, e dunque meglio non farglielo sapere per niente, “per non discriminare le aziende”. Che hanno sempre prodotto nella legalità, ripetiamo, ma quasi sempre secondo criteri di puro contenimento dei costi e massimizzazione della marginalità, come dicono gli addetti ai lavori, spendere il minimo e guadagnare il massimo come diremmo noi. Cosa che è nella loro “natura” (a volte la parole sono così ironiche), è vero, ma anche oltreoceano Michael Pollan (celebre per le famose regole di evitare cibi con più di tre/cinque ingredienti e qualsiasi cosa che la nostra bisnonna non avrebbe considerato un alimento) sostiene che molte industrie alimentari non avrebbero mai potuto prosperare se non fosse per la profonda ignoranza da parte di noi consumatori circa ingredienti e processi produttivi, abilmente mascherati anche grazie all’aiuto di fumose etichette (2). E Pollan è ancora più chiaro: la moderna industria alimentare non resisterebbe un giorno se il consumatore non ignorasse, come succede oggi, molte cose.

E’ proprio qui che viene fuori il punto centrale della vicenda, che è il bisogno di una diffusa e profonda cultura alimentare, che parta dalla scuola fino ad arrivare a linee guida diffuse al pubblico veramente obiettive e indipendenti (dall’industria) e che fornisca i mezzi per poter anche capire, davanti ad una etichetta (che dev’essere completa, e qui entra in gioco la normativa), se ci troviamo davanti a un’azienda seria che produce alimenti con passione o a un furbacchione, e soprattutto a capire se ci può fare bene o male. Con questa normativa si è partiti un po’ dal fondo, ma per il momento accontentiamoci.

Comunque, per farla breve, fra le tante novità alcune ci interessano:

  • Finalmente non sarà più possibile citare fantomatici “grassi vegetali“: sarà obbligatorio elencare di che tipo di grasso si tratta (olio di palma, di cocco, di colza, di oliva, di girasole, ecc.). Questa è una delle novità più utili: le industrie non possono sfuggire e infatti molte si stanno attrezzando per modificare i grassi utilizzati, prima di essere costrette a rivelare cosa hanno usato finora. Rimane l’obbligo di citare se siano idrogenati o meno.
  • La precisione sull’origine non è invece obbligatoria per i grassi animali, chissà perchè: sapere se c’è burro o strutto potrebbe interessare più di una persona, ad esempio i vegetariani. Decade l’obbligo, ma anche la possibilità, di indicare la quota di colesterolo (chissà perchè).
  • Entro tre anni si deciderà se rendere obbligatorio indicare la precisa provenienza degli alimenti mono-ingrediente (come il latte), degli ingredienti utilizzati in percentuale maggiore del 50% (pensiamo al grano per la pasta), dei prodotti non trasformati (cereali in chicco, legumi, ecc.). Perchè decidere fra tre anni (dunque non è neanche detto che si farà…)? E chi lo sa? Si spera forse, nel frattempo, di ammorbidire le resistenze delle industrie di trasformazione, che stanno già pestando i piedi? Domanda spontanea: e cosa avranno mai da nascondere? Pratiche un po’ troppo bizzarre di import-export?
  • Obbligo di indicare l’origine delle carni suine, ovine, caprine, avicole. Come tutti sappiamo l’obbligo c’era già per le carni bovine, dopo “mucca pazza”. I più attenti fanno notare che negli elenchi dettagliati sono stati “dimenticati” i conigli e le quaglie. A noi la carne interessa poco o niente, ma è bene sapere anche questo.
  • Grassi trans: non sarà obbligatorio dire se ci sono, ma attenzione, non si potrà dire neanche che NON ci sono. Non andranno nemmeno citati. Mistero. Probabilmente le (poche) multinazionali che li producono sono riuscite a fare un po’ più di pressione, per il momento: la CEE si riserva di ripensarci fra tre anni (!) a seconda dei risultati di un futuro rapporto (su cosa? Come se sui grassi trans non se ne sapesse già abbastanza: è una delle poche cose su cui sono d’accordo tutti i nutrizionisti, cosa rara). Fra l’altro negli USA, ed è tutto detto, l’indicazione è già obbligatoria, dunque le aziende europee che vendono anche nel mercato nordamericano dovranno stilare due diverse etichette!
  • Big 8

    Big 8

    Le tabelle nutrizionali, come quella qui a fianco, saranno obbligatorie. E’ forse la novità più importante. Sono dette in gergo (soprattutto in nordamerica) “BIG 4” (se contenenti quattro indicazioni: Kcal, proteine, carbo e grassi – insufficienti però per la nostra nuova normativa) e “BIG 8” (Kcal, proteine, carbo, di cui zuccheri, grassi, di cui saturi, fibra, sodio). In quelle europee le fibre non saranno obbligatorie, dunque si potrà parlare di “BIG 7”, anche se praticamente tutti le elencheranno e il “BIG 8” sarà la norma. Dovrebbero far capire a colpo d’occhio se il prodotto in vendita sia paragonabile ad un’arma letale per il nostro cuore o se un’intera piantagione di barbabietole da zucchero sia finita nel pacchetto. Fra l’altro dovrebbe finalmente smascherare il puerile trucchetto di dividere un ingrediente “scomodo” in sue “sottofamiglie” per farlo scivolare in fondo alla lista degli ingredienti e farlo apparire meno invadente. Usato tipicamente per “diluire” i dolcificanti nei prodotti da forno: un elenco del tipo farina, grasso vegetale, uova, zucchero, sciroppo di glucosio, malto di mais, fruttosio, miele è un trucchetto da giocolieri per mascherare il fatto che la somma degli zuccheri finirebbe senza dubbio al primo posto della lista, con grande disappunto dell’ufficio marketing dell’azienda produttrice e del nostro pancreas, mentre visti così danno l’impressione di essere usati in dosi omeopatiche, e in più sulla confezione ci sarà sicuramente scritto “al miele”… Ma anche qui la furberia è dietro l’angolo: sono stati esentati dall’obbligo della tabella nutrizionale gli alimenti cosidetti “preincartati“, ossia quelli che ad esempio i supermercati prelevano da confezioni più grandi e vendono porzionati o sfusi in vaschette. Se vedete che il reparto del “fresco e preincartato” del supermercato che frequentate aumenta di dimensioni nei prossimi mesi, potrebbe mascherare un simile tentativo di eliminare silenziosamente tabelle nutrizionali poco rassicuranti, dunque facciamo attenzione.

  • GDA

    GDA

    Saranno consentite (ma non obbligatorie) le cosidette “GDA” (Guideline Daily Amount), come quella a fianco, che potranno indicare calorie, carbo, zuccheri, grassi per porzione  e in relazione ai fabbisogni giornalieri. Secondo la ratio della normativa le “GDA” dovrebbero essere utili per capire al volo se l’alimento in questione sia una bomba o no. In pratica, però, il trucchetto è quello di indicare porzioni adatte al sostentamento di un criceto più che di un uomo. In più già si assiste al divertente fenomeno delle “porzioni oscillanti”: lo stesso prodotto con porzioni diverse a seconda delle confezioni, come nella bibita qui sotto (notare che la parola “porzione” non viene mai usata):  nel caso della lattina da 500 ml la “porzione” è di 250 ml, mentre nella lattina da 330 ml (la classica) le GDA sono relative all’intera lattina (la porzione da 250 ml è sparita). Dunque nella lattina grande gli zuccheri sembrano la metà di quelli effettivamente ingeriti: avete infatti mai visto un ragazzino iniziare una lattina da 500 ml (in ristoranti, pizzerie e mense è il formato quasi standard) e fermarsi per paura di superare la porzione consigliata? Nel caso della lattina grande bevuta per intero la dose di zuccheri semplici arriva in realtà quasi al 60% della dose giornaliera: con una sola lattina ci si gioca la quantità di zuccheri di quasi tutta la giornata (frutta addio), con l’aggravante di assumerli tutti in una volta (e la glicemia vola). Dunque non tutte le GDA sono indicative di quanto si stia veramente mangiando: attenzione.

Porzioni oscillanti

Porzioni oscillanti

Se siete arrivati fin qui vi siete meritati la spiegazione del titolo: Premio Etichetta del Mese. Ho pensato di pubblicare di volta in volta le varie etichette che ho raccolto e raccolgo durante i miei giri per mercati e scaffali, sia nel bene (ottimi prodotti) che nel male (intrugli di pessimi ingredienti), con il perchè abbiano scatenato il mio interesse e i pensieri che mi hanno evocato. Insieme a questo numero zero viene pubblicato a ruota il numero uno, con la prima etichetta. Una nota scontata: nel caso degli intrugli non farò nomi: non voglio noie dai soliti rompiscatole. Ma con un po’ di esperienza da supermercato le etichette saranno facilmente individuabili…

(1) E’ in vigore da novembre 2011, e le aziende hanno tre anni di tempo per adeguarsi. Motivo dei tre anni: ci sono alimenti a lunga scadenza, e inoltre consentire alle aziende di far fuori imballaggi e confezioni ormai stampati. Motivo più prettamente aziendale: permettere ai produttori di rivedere quei cicli produttivi che con le nuove etichette evidenzierebbero una scarsa attenzione alla qualità.

(2) I libri di Michael Pollan sono immancabili nella libreria di chi si interessa di alimentazione. Questa considerazione su etichette e industrie è tratta da “Il dilemma dell’onnivoro”, ediz. italiana di Adelphi (2008), pag. 264.

(3) Come cameo finale per questo “numero zero” dell’etichetta del mese, un caso che non c’entra niente con la qualità dei prodotti ma molto con la superficialità e l’ottusità del “sistema burocrazia”: sicuramente avrete notato sulle etichette di molte acque minerali (di solito accanto al disegno di un bel faccino di bambino, vedi esempi qui sotto) la celeberrima frase “L’allattamento al seno è da preferire, nei casi ove ciò non sia possibile, questa acqua minerale è indicata per la preparazione degli alimenti dei neonati”. La punteggiatura, se di punteggiatura si può parlare, è proprio quella. Ne esce una frase grammaticalmente orrenda. Ma perchè tutte, ma prorio tutte le aziende che la riportano in etichetta la declinano esattamente nello stesso insensato modo, senza alcuna eccezione, senza ad esempio il tentativo di sostituire la prima virgola con un determinante punto? Per avere la risposta, o farsi venire almeno un forte sospetto, basta un giro per i motori di ricerca, ma ve la riassumo volentieri io: quando un’azienda che imbottiglia vuole far sapere al consumatore che la propria acqua è adatta a preparare alimenti per i neonati (latte sostitutivo, prime pappe, ecc.) non può ovviamente scriverlo e basta (e va più che bene), ma deve chiedere al Ministero della Salute un’apposita autorizzazione scritta, che di anno in anno, di richiesta in richiesta, è probabilmente stata concessa copiando, incollando e spedendo ai richiedenti sempre la stessa traccia con l’orribile dicitura, intimando fra l’altro di mettere in etichetta proprio quella e solo quella frase, pena l’illegalità. E per “non correre rischi”, ecco che quasi tutte le acque minerali italiane si ritrovano con l’orrenda punteggiatura. Mai nessuna azienda ha tentato di trattare con il Ministero una modifica della strampalata frase? Mai nessuno al Ministero ha riletto il modello prima di spedirlo, visto che l’autorizzazione è stata concessa centinaia di volte? Ai posteri, o a qualcuno con più pazienza di me, l’ardua risposta.

Burocrazia

Burocrazia

Burocrazia

Burocrazia

Pubblicato da: pades | 3 ottobre 2012

Omega-3 inutili? Parliamone.

omega-3

Omega-3

Fermi, fermi… non buttate alle ortiche il pesce che avete nel freezer e le noci stipate in dispensa! Anche se, dopo i numerosi lanci di stampa relativi a uno studio greco comparso su JAMA (1), la tentazione potrebbe essere quella. Tutti titoli del tipo: “Omega-3: su cuore e vasi non funzionano” o ”Nessun beneficio per il cuore dagli omega-3”. Cominciavate già a vederne anche i lati positivi: niente più bambini costretti a nascondere pezzi di pesce nei tovaglioli, e addio gusci di noce sparsi per tutta la cucina dal marito troppo energico con lo schiaccianoci. Ma cosa è successo? Un altro mito che crolla? No, tranquilli, ma per capirlo bisogna approfondire, come al solito, e non basta leggere al volo i titoli passando con l’autobus davanti all’edicola. L’oggetto del contendere è una review e metanalisi di 20 fra gli studi più indicativi sugli effetti degli omega-3, una meticolosa revisione di cifre e metodi utilizzati che confida sul gran numero di persone coinvolte (in questo caso circa 70.000, fra tutti gli studi esaminati) per trarre conclusioni finalmente definitive. Ma, secondo il gruppo di lavoro dell’università greca di Ioannina, in queste ricerche di entusiasmante c’era ben poco, concludendo che l’effetto degli omega-3 sulla prevenzione di malattie del cuore e dei vasi, di ictus e della mortalità in generale non è tale da giustificare somministrazioni preventive né curative. Ma le conclusioni non sono poi così drastiche come sembra.

Vediamo prima cosa hanno fatto: sono stati esaminati 3635 studi sugli omega-3, e per vari motivi ne sono stati scartati 3615 e scelti 20, giudicati i più solidi (randomizzati, in doppio cieco, con follow up, ecc.). I risultati sono stati sommati (numero di partecipanti, patologie, eventi nefasti, ecc.) elaborati e corretti, anche in base alla dose di omega-3 somministrata (in media 1.51 g al giorno fra EPA e DHA). Una nota: solo 2 dei 20 studi erano relativi ad assunzione di omega-3 attraverso la dieta (sono stati considerati a parte, ed erano fra l’altro contradditori nei risultati), mentre tutti gli altri 18 erano relativi a supplementazione con integratori (in genere olio di pesce).

I risultati finali (sul rischio relativo) sono stati questi:

  • Mortalità generale:   -4%
  • Morte per evento cardiaco:   -9%
  • Morte improvvisa:   -13%
  • Infarto non fatale:   -11%
  • Ictus (sia emorragico che per trombosi):   +5%

Questi numeri sono stati considerati statisticamente non determinanti e troppo modesti per suggerire somministrazioni di omega-3 sia preventive che curative, e da qui sono partiti i titoloni delusi. Ma facciamo alcune considerazioni:

  • Innanzitutto non è vero che non emergono effetti preventivi: dalle cifre snocciolate è evidente infatti che il rischio di infarti (letali e non) e morti improvvise cala dal 9% al 13% con supplementi di omega-3, e “solo” del 4% per la mortalità in generale, nella quale però finiscono tutte le malattie e da cui è difficile (se non impossibile) estrapolare le sole malattie cardiovascolari. Da notare che in uno dei due studi con omega-3 proveniente da “cibi veri” il rischio di infarto fatale calava addirittura del 33% (ma per correttezza va detto che gli altri numeri dei due studi “alimentari” erano assai contradditori, nonostante il gruppo di ricerca fosse lo stesso; addirittura evidenziavano aumenti di rischio). Non sono proprio numeri da buttare via.
  • Per ammissione degli stessi ricercatori gran parte degli studi sono posteriori all’entrata in vigore di nuove terapie particolarmente efficaci (statine, antiaggreganti di nuova generazione, ecc.) e la stragrande maggioranza delle 70.000 persone coinvolte provenivano da storie patologiche di varia gravità, dunque sottoposte anche ad altre cure, parallele agli omega-3, che possono averne seriamente mascherato l’effetto. Ma notiamo che nonostante questo i risultati generali sono stati comunque di riduzione del rischio. Sarebbe stato interessante valutarne l’effetto su persone sane e “non trattate”, ma sono studi molto lunghi e costosi, che probabilmente mai verranno fatti.
  • Gli effetti degli omega-3 ormai riconosciuti sono i seguenti: abbassano i trigliceridi (il motivo principale per cui sono ufficialmente somministrati negli USA), prevengono le aritmie cardiache, limitano l’aggregazione delle piastrine, diminuiscono la pressione arteriosa. E’ ormai anche assodato che gli omega-3 abbiano più effetto in alcuni casi che in altri (ad esempio più nelle aritmie che negli scompensi cardiaci) e soprattutto che gli effetti degli omega-3 si facciano notare di più in persone con patologie avanzate, meno ovviamente nei casi meno gravi, nelle persone sottoposte ad altre cure analoghe e nelle persone sane. Addirittura possono peggiorare i rischi di ictus emorragici (poiché favoriscono la fluidità e l’anti-aggregazione, e questo potrebbe spiegare quel +5% degli ictus in generale), mentre proteggono da quelli dovuti a trombi. Insomma l’effetto dipende sia dalla patologia che dalla sua gravità, ma nei casi elettivi l’effetto sembra esserci eccome, anche se nell’insieme i picchi di efficacia vengono smussati da quelli di minore effetto e da quelli di pazienti meno problematici. Questo non toglie che gli omega-3, ma soprattutto i cibi che li contengono, possano avere un generale effetto protettivo a lungo termine anche nelle persone più sane, nelle quali ovviamente il margine di miglioramento salta meno all’occhio ma dove concorrono a fortificare la buona salute di base. Volendo fare un paragone è come dire che una bottiglietta d’acqua non provoca significativi effetti in un bagnante sulla spiaggia, assetato ma già sufficientemente idratato (anzi produce lo spiacevole effetto di dover cercare un bagno con urgenza), mentre produce significativi miglioramenti generali solo in un uomo raccolto strisciante nel deserto dopo 24 ore di disidratazione forzata e miraggi vari. Osservando in maggioranza i primi casi si potrebbe pensare che bere in caso di alte temperature sia mediamente poco utile. Da notare anche che la durata media degli studi analizzati era di soli due anni, un periodo relativamente breve (il più lungo era di sei anni) per saggiare effetti a lungo termine.
  • In gran parte delle ricerche esaminate gli omega-3 sono stati somministrati come supplementi, sganciati dalle vitamine, dai minerali e dalle proporzioni rispetto agli altri grassi che hanno nei cibi integri sui quali l’organismo si è evoluto: sarebbe stato interessante valutare anche gli aggiustamenti per questa variabile. Purtroppo gli unici due studi “alimentari” sono stati separati dai risultati finali.

Ma la considerazione finale è che l’approccio “da integratori” è sbagliato alla base. Non si può pensare che, senza modificare nulla nelle abitudini scellerate degli occidentali iperalimentati e sedentari, basti qualche capsula di olio di pesce per ribaltare le sorti delle arterie e del cuore. Anzi sono grassi aggiunti a quelli già consumati in eccesso. Ben altra cosa sono decenni di pasta integrale con le sarde, di caciucco, di brodetto, di pesci al forno, di noci e semi oleosi tutti i giorni. E poi notate che è bastato che i ricercatori scrivessero conclusioni appena un po’ deluse e subito i media hanno processato e condannato i poveri omega-3 di inefficacia. Con tutti quei segni negativi nei rischi, almeno un po’ di ottimismo (e magari leggere la ricerca e non solo l’abstract)… e andiamo a recuperare il pesce e le noci dalle ortiche!

 

(1) Rizos Evangelos, Ntzani E. e altri: “Association Between Omega-3 Fatty Acid Supplementation and Risk of Major Cardiovascular Disease Events: A Systematic Review and Meta-analysis”. JAMA (Journal of the American Medical Association), settembre 2012; Volume 308, n. 10, pagine 1024-1033

Pubblicato da: pades | 9 marzo 2012

Ricalcifichiamoci (non è mai troppo tardi)

Lo sapevate che un pacchetto di snack molto salati ci erode dalle ossa parecchi mg di calcio, e che se è nostra abitudine gustarli spaparanzati sul divano davanti alla TV è ancora peggio? Non vi ha mai convinto (e avete ragione) la diceria che i latticini provochino l’osteoporosi? Non credete assolutamente (e anche qui siete nel giusto) che sia sufficiente strafogarsi di latticini per avere ossa sane? Volete sapere di quanti mg di calcio abbiamo veramente bisogno ogni giorno? Bene, questo è il post che fa per voi (c’è anche una tabella che non troverete da nessuna altra parte). E’ un po’ lungo, ma parlare di calcio, ossa e osteoporosi in cinquanta righe sarebbe stato poco serio, inutile e sicuramente sbagliato. E in più ci ho messo anni a capirci qualcosa! Potete anche stamparlo (ma solo se necessario: non sprechiamo carta…) e leggerlo con calma. Versione pdf cliccando qui.

Ossa e calcio

Ossa e calcio

“Tarda età, ossa fragili, carenza di calcio”: questo è, nella maggior parte dei casi, lo scenario che gran parte delle persone immagina parlando di osteoporosi. Le donne più informate sanno anche che la menopausa è uno spartiacque per la salute delle ossa, ma oltre queste quattro informazioni generalmente non si va. Non parliamo poi di andropausa agli uomini: molti non sanno neanche che esista. Dai mass media si sente dire tutto e il contrario di tutto: chi consiglia i latticini e chi dice che sono un veleno, chi dice di limitare le fibre e chi dice addirittura che servono, chi demonizza le proteine e chi dice che senza le ossa si sfaldano, e via confondendo. Dopo aver immerso inutilmente le braccia fino ai gomiti nel pantano informativo, va un po’ meglio se ci si rivolge alla scienza. Approfondendo e studiando, tutto sembra inquadrabile in un’unica spiegazione, anche se, per ammissione degli stessi scienziati, accanto a quelli ormai ben conosciuti ci sono alcuni meccanismi metabolici e di assorbimento del calcio e degli altri minerali che sono ancora poco chiari, o per lo meno da approfondire: succede che ci siano ricerche che nel giro di pochi mesi riescono apparentemente ad affermare e smentire la stessa tesi, anche se nella maggior parte dei casi è perchè il problema, visto da angolature diverse, dà risultati diversi. E’ da qui che si origina la Babele mediatica su risultati e conseguenze di molti studi: tutto questo bel calderone, amplificato maldestramente da una macchina dell’informazione ormai abituata a non approfondire, superficiale e desiderosa di notizie iperveloci, produce un vortice di segnali e informazioni contradditori e mutevoli, che invece che semplificare il problema sembrano complicarlo e portano molti di noi a non capirci più nulla. Ma l’argomento è veramente così ingarbugliato? E perchè?

L’argomento non è ingarbugliato, e la spiegazione è semplice: questi sono i tipici sintomi di un problema multifattoriale, nel quale cioè non ci sono solo uno o pochi elementi preponderanti, ma una complessa interazione e sinergia di variabili, ciascuna con un potenziale ruolo decisivo a seconda delle situazioni. Per certi versi simile alle patologie cardiovascolari o al cancro: tutti malanni senza un colpevole e una cura ben determinati perchè legati ad una moltitudine di cause, concause, fattori scatenanti e favorenti, e tutti con gradi di influenza comparabili.

Come tutti i problemi multifattoriali la soluzione sta nello studiarlo da tutti i punti di vista, mettendo a fuoco tutte le variabili e ottenendo poi una visione di insieme (e con un approccio saldamente scientifico tipico della macrobiotica come la intendiamo noi). Proviamoci dunque: vedremo quali sono i punti fermi a cui è giunta la scienza e i consigli che se ne traggono per favorire la futura salute delle ossa nei bambini e recuperare dove possibile quella degli adulti. Perchè oltre ad essere un problema multifattoriale, questa malattia può porre le sue basi già in tenera età, come sintetizzò già negli anni ’70, genialmente, Charles Dent: “L’osteoporosi senile è una malattia di pertinenza pediatrica” (1). Affermazione attualissima vista la scarsa qualità dell’alimentazione diffusa fra i giovanissimi.

Vedremo che spiccano subito tre grandi elementi: esercizio fisico, calcio e vitamina D. Riguardo il calcio ci sono tre ulteriori possibilità: potremmo non assumerne abbastanza con l’alimentazione, potremmo non assorbirlo bene o a sufficienza, e da ultimo potremmo perderne troppo, il tutto per molteplici motivi. Trasversalmente, elementi che vanno dal nostro corredo genetico alla evoluzione della specie umana alle abitudini alimentari. Gli infiniti intrecci di queste e altre variabili minori che scopriremo possono portare a svariate possibili gradazioni di salute delle ossa, dal benessere totale all’osteoporosi più grave.

Un intreccio interessante che cercheremo di districare, e per farlo il post è così suddiviso:

  1. Cosa succede dentro di noi? Le ossa e il metabolismo del calcio (introduzione)
    1. Le ossa sono vive
    2. Atomi a zonzo
  2. Cose interessanti che è bene sapere (approfondimenti)
    1. Quanto calcio serve
    2. Assorbimento del calcio: quanto e come
    3. Perdere è peggio che non guadagnare
    4. Chi controlla il metabolismo del calcio?
    5. L’interessante mistero del calcio e dell’evoluzione
    6. Miti, leggende e co.
  3. E dunque cosa dovremmo fare? (conclusioni)
    1. Esercizio fisico
    2. Calcio, ma non solo
    3. Vitamina D
    4. Proteine: nella giusta quantità
    5. Sodio
    6. Biodisponibilità e assorbimento
    7. Vitamina K
    8. Latticini
    9. Calcio: posso esagerare?

 COSA SUCCEDE DENTRO DI NOI? LE OSSA E IL METABOLISMO DEL CALCIO.

Per capire meglio come funziona il metabolismo di questo minerale nel nostro corpo seguiamo l’ipotetico viaggio di un manipolo di atomi di calcio, usandolo come espediente per un giro turistico fra ossa, ormoni, vitamine e proteine. Servirà per dare un’occhiata d’insieme al panorama e proporre spunti da approfondire più avanti.

Inquadriamo la scena iniziale: un gruppetto di atomi, che se ne sta tranquillo nel terreno di un campo coltivato a broccoli, dopo una bella giornata di pioggia viene catturato dalle radici di una pianta, che piano piano li ingloba nei suoi tessuti. A qualche chilometro di distanza, invece, vive un altro protagonista della nostra storia, un ragazzino che chiameremo Luca.

Mentre aspettiamo che il broccolo cresca e lasciamo momentaneamente Luca a giocare, esaminiamo uno dei fondali della storia: il nostro scheletro. Contrariamente a quello che si pensa è tutt’altro che un apparato statico nel tempo, anzi è un cantiere continuo, anche in età adulta. Osteoblasti e osteoclasti, le cellule deputate a depositare e prelevare i minerali dalle ossa, sono sempre attive ad ogni età e passano il tempo stazionando nei pressi e dentro il tessuto osseo. Il calcio e gli altri minerali vengono continuamente inseriti e prelevati dalla matrice ossea (a base proteica, formata da fibre collagene) a seconda delle numerose necessità dell’organismo (mantenimento del ph fisiologico, trasmissione dei segnali nervosi e muscolari fra cui il controllo del battito cardiaco, coagulazione del sangue, ecc.) e ai conseguenti segnali ormonali. Biologicamente infatti lo scheletro, oltre che essere un sostegno per il corpo, è anche il deposito di minerali dell’organismo: all’alba dell’evoluzione dei vertebrati la natura, non potendo immagazzinare in grande quantità i minerali negli organi molli e men che mai nel sangue, ha trovato la geniale soluzione di abbinare allo scheletro la doppia funzione di struttura portante e di deposito di minerali. E’ dunque perfettamente normale che le ossa vengano continuamente disfatte e ricostruite, l’importante è che il bilancio, ovviamente, rimanga positivo. Durante l’infanzia e l’adolescenza, come nel caso del nostro amico Luca, le ossa crescono, e il bilancio deve essere fortemente positivo, fino al raggiungimento del picco di massa ossea, la massima densità e massa possibile secondo il nostro individuale patrimonio genetico ereditato dagli avi, che si completa intorno ai trent’anni con l’arrivo del profondo cambiamento ormonale che sancisce la fine della fase di crescita. Da quel momento, qualunque sarà l’apporto di calcio e altri minerali, densità e massa ossea non supereranno mai quel limite, e da questo si intuisce l’importanza di arrivare alla fine della crescita con le ossa nelle migliori condizioni possibili. L’affermazione di Dent comincia a spiegarsi: durante il resto della vita le necessità dell’organismo tenderanno a prelevare minerali dalle ossa, e starà all’alimentazione reintegrare, giorno per giorno, le perdite. Partendo da una buona situazione dello scheletro sarà tutto molto più facile.

Nel frattempo il broccolo è stato raccolto dal campo e per vie traverse è arrivato nel piatto di Luca, che si sta preparando ad un pomeriggio piuttosto movimentato di sport: una partitella di calcio (ironia della sorte) con gli amici. La cottura non ha minimamente disturbato gli atomi di calcio, che in men che non si dica si ritrovano nello stomaco. Usciti dallo stomaco, già nel duodeno l’allegro gruppetto nota che sta succedendo qualcosa: grazie alla abbondante presenza di vitamina D (dovuta ai pomeriggi passati al sole a giocare) questo primo tratto dell’intestino tenue ha prodotto una vagonata di particolari proteine, il cui scopo è di legarsi al calcio che capita loro a tiro (assorbimento attivo, vedi oltre). Oltre un terzo del gruppetto viene acchiappato dalle proteine, attraversa le pareti del primo tratto dell’intestino (digiuno) e viene liberata nel circolo sanguigno. Un’altra parte, più piccola, riesce ad attraversare le pareti dell’intestino dal digiuno fino ad un tratto successivo del tenue (ileo), insinuandosi tra una cellula e l’altra (assorbimento passivo). I restanti continueranno il loro viaggio fino al colon: qualcuno di loro forse verrà assorbito, gli altri verranno inesorabilmente espulsi, e saranno quasi la metà del gruppo di partenza (e va bene perché Luca è in crescita: in un adulto se ne perderebbero quasi due terzi).

Una volta nel circolo sanguigno, i superstiti del nostro gruppetto iniziano un allegro viaggio per i vasi. Quando sono in fila nei capillari della pelle sentono il calore del sole (nel frattempo la partita è iniziata) e assistono alla produzione di vitamina D3, che entra in circolo con loro e mano a mano che procede si accomoda nei tessuti adiposi, dove può rimanere per mesi. Passando nei vasi del collo i nostri chiassosi compari vanno a stuzzicare i sensori della tiroide, che percepiscono l’affollamento di calcio nel sangue (Luca ha mangiato anche un pezzo di formaggio, e la calcemia sta salendo parecchio) e fanno rilasciare alla ghiandola l’ormone calcitonina, che porta per l’organismo il messaggio “… ok, c’è abbastanza calcio: l’intestino rallenti l’assorbimento, i reni non lo trattengano più di tanto e soprattutto gli osteoblasti, nelle ossa, ne accumulino più che possono …“. Infatti sfuggono per miracolo alle porte che i reni hanno aperto, per il calcio, verso la vescica, e si dirigono verso le gambe. Il collo del femore nel frattempo, a causa della concitata partita a calcio, è sottoposto a parecchia pressione, e un bel fronte di calcificazione si sta preparando grazie al lavoro di un folto gruppo di osteoblasti, che non vedono l’ora di avere per le mani un bel carico di minerali da mettere nell’osso, visto che il messaggio della calcitonina li ha già messi in allerta. Quando vedono arrivare la nostra comitiva di atomi di calcio, il lavoro è presto fatto: in poco tempo cristalli di idrossiapatite (fosfato di calcio) si formano e vengono stipati nella matrice ossea di collagene (a base proteica), e gli osteoblasti vi si sistemano come in tante nicchie entrando in una specie di letargo, diventando vere e proprie cellule del tessuto osseo, gli osteociti. Un nuovo, robusto strato di osso si forma.

Passano i mesi, e il nostro amico Luca si ritrova, per un veloce pranzo con gli amici, davanti ad hamburger e patatine fritte, anche piuttosto salate. La digestione dell’eccesso di proteine produce un bel po’ di molecole di ammoniaca, e anche l’acidità del sangue comincia a salire. Anche smaltire tutto quel sale non è facile, e tutti i sistemi tampone richiedono, fra l’altro, molto calcio. La riserva in circolo per il sangue viene rapidamente intaccata, e la calcemia scende molto velocemente. I sensori della paratiroidi se ne accorgono subito, e viene rilasciato immediatamente un bel quantitativo di paratormone. Il suo messaggio è chiaro: “chiunque detenga calcio è pregato di rilasciarlo in circolo, il prima possibile”. Un drappello di osteoclasti che presidiano il collo del femore, dove i nostri amici atomi erano stati stipati, cominciano a smobilitare i minerali dal tessuto osseo, creando tante micro-cavità con la promessa di riempirle di nuovo, appena possibile. Lasciano questo incarico a una squadra di osteoblasti che rimane lì, in attesa di tempi migliori. A malincuore i nostri amici atomi vengono invece impiegati per neutralizzare l’acidità, e diventano materiale di scarto. Finiscono nei reni, che tentano in ogni modo di trattenere i superstiti, ma senza riuscirci. La loro permanenza nell’organismo di Luca è finita, e tornano nella terra.

Non pensiate che tempi così veloci di mobilitazione del calcio nel nostro scheletro siano campati per aria. Il turnover di minerali nelle ossa è così elevato che corrisponde ad un ricambio completo dello scheletro ogni due anni nei bambini e nei ragazzi, ogni sette-dieci negli adulti. Non ve lo aspettavate? Bene, è con questa notizia che iniziano le…

COSE INTERESSANTI CHE E’ BENE SAPERE.

Ma quanto calcio serve all’organismo e quanto riusciamo ad assimilarne di quello che mangiamo? Una volta cresciuti e raggiunto il picco di massa ossea il lavoro è tutt’altro che finito, e l’introito di calcio deve continuare. La convinzione di molti adulti che “da grandi” l’apporto di calcio possa essere sottovalutato è ovviamente un grave errore. In ogni momento della giornata le esigenze di calcio dell’organismo vengono soddisfatte da quello presente in diluizione nel sangue (circa 10 grammi in tutto) e se ne serve altro gli osteoclasti, stimolati dai segnali ormonali delle paratiroidi (che tramite i loro sensori sentono la concentrazione di calcio nel sangue –la calcemia– e producono il PTH), erodono un po’ di osso e lo mettono in circolo. Questo circolo però non è chiuso: per quanto i reni (se il calcio scarseggia) facciano il possibile per riassorbire il calcio ed evitare che vada perso con l’urina, quote di calcio (circa il 2%) non riescono a essere salvate (vedi i nostri amici atomi) e oltre che con l’urina vanno perse con le feci, il sudore, le lacrime, il ricambio della pelle, dei peli e dei capelli. Questa quota fissa è di circa 300 mg al giorno, e questi 300 mg vanno reintegrati, pena un’erosione ossea eccessiva. E’ questo il motivo per cui tutti giorni dobbiamo assumere calcio con l’alimentazione. Beh, direte voi, 300 mg sono pochissimi, e facili da reintegrare! Non è così semplice, perchè il calcio che introduciamo con gli alimenti non è tutto assimilabile (biodisponibile) e lo è in maniera diversa nei vari alimenti, nei vari pasti e a diverse età. Nei bambini l’assorbimento intestinale è maggiore, negli anziani diminuisce. Il calcio dei latticini è assimilabile anche oltre il 60%, quello di alcune verdure a foglia (per via di ossalati e fibre) solo dal 5% al 10%. Quello dei legumi più o meno lo stesso, per via di fibre e fitati, mentre il calcio dell’acqua è ben assimilabile (fino al 50%). Molto dipende dalle fonti di calcio e dalle associazioni alimentari, ma il succo è che per averne 300 mg puliti ne dobbiamo assumere molto di più: nell’ambito di una dieta varia e corretta l’assorbimento medio oscilla dal 35% al 40%, ed ecco perchè le linee guida (per l’Italia quelle validissime divulgate dall’INRAN) indicano un fabbisogno alimentare di circa 1000 mg al giorno per i bambini, 1200 per i ragazzi, 800 mg per gli adulti sani, 1000 per gli anziani (1200 per le donne post-menopausa non soggette a terapia ormonale sostitutiva). Queste quantità servono ad assicurare nella maggior parte (95%) della popolazione quei famosi 300 mg netti di cui non possiamo fare a meno, per restare almeno in parità fra entrate e uscite nel caso degli adulti, per raggiungere il miglior picco di massa ossea possibile per i piccoli. Questi valori sono stati stabiliti anche tenendo conto della quota-soglia di calcio, ossia il punto al di sotto del quale la massa ossea diminuisce se diminuisce la quantità introdotta e al di sopra del quale la massa ossea non aumenta più anche aumentando l’introito. Le linee guida americane sono più esigenti (oltre i 1000 mg anche per gli adulti sani) ma gli studi recenti danno ragione alle più parche indicazioni europee (vedi anche più avanti: biodisponibilità).

Assorbimento del calcio: quanto e come? Come abbiamo visto non tutto il calcio che ingeriamo con gli alimenti viene effettivamente assorbito. I meccanismi di assorbimento sono fondamentalmente due, uno attivo e uno passivo.

L’assorbimento attivo avviene nell’intestino tenue (quello prossimale, cioè quello più vicino allo stomaco), nel quale attraversa le membrane tramite particolari proteine a cui si aggrega (prodotte in loco dalle stesse mucose su segnale della vitamina D). E’ saturabile e governato dalla richiesta dell’organismo tramite ormoni (vitamina D, PTH, calcitonina, estrogeni) fino ad un certo livello oltre il quale il calcio non viene più assorbito (il sistema, appunto, si satura). Secondo esperimenti fatti (26) questo avviene già all’incirca con il calcio dato da un vasetto di yogurt (3 mM, cioè 120 mg). Il secondo meccanismo, quello passivo, avviene per diffusione e non è saturabile (cioè: più ce n’è, più ne passa, senza una soglia), sempre nell’intestino tenue (più o meno tutto) e meno nel colon. In questo caso il passaggio avviene fra gli spazi cellulari e non dipende dai segnali ormonali o da proteine di trasporto, ma sembra sia facilitato da proteine come la caseina e alcuni zuccheri come il lattosio. L’assorbimento per diffusione non è trascurabile, tanto che, in caso di carenza di vitamina D che favorisce il meccanismo attivo, quello passivo può addirittura diventare la via di assorbimento predominante (può succedere in neonati e anziani). In media, ai giorni nostri, l’assorbimento passivo apporta dal 5% al 20% del calcio assorbito (cioè quello che abbiamo definito “netto”). Più è alta la dose di calcio, più la percentuale sale (26).

Il meccanismo nel suo complesso è dotato di una certa elasticità. Può gestire periodi di scarso apporto di calcio (il meccanismo attivo può aumentare l’assorbimento fino a raddoppiarlo: dal 35% fino a quasi il 70% di quello ingerito), come capita durante la crescita, o di norma nelle comunità sottonutrite presso le quali l’apporto giornaliero di calcio è bassissimo. Può anche gestire sovradosaggi, nel qual caso l’eliminazione urinaria ha un’impennata. Oltre che sull’assorbimento intestinale l’elasticità si basa anche sul riassorbimento renale, che in caso di necessità è in grado di trattenere fino al 98% del calcio che passa attraverso il suo filtraggio, ed è regolato principalmente dal PTH. Ma al di sotto di una certa soglia di calcio anche questa elasticità non è più sufficiente: l’assorbimento più di tanto non aumenta (il 70% di quello ingerito sembra essere il limite massimo). Ovviamente sono stati fatti innumerevoli studi per saggiare quale sia la soglia minima di mantenimento, e si è visto che al di sotto dei 400-500 mg di calcio al giorno l’organismo non riesce ad essere in attivo, per quanto si sforzi: quei 300 mg che vengono giornalmente persi non vengono completamente rimpiazzati. Se la scarsità di calcio ingerito con gli alimenti si protrae per lunghi periodi il danno si aggrava sempre più, erodendo inesorabilmente le ossa (o nei bambini e ragazzi non facendo raggiungere un buon picco di massa ossea, dunque rachitismo, osteopenia…). Interessante lo studio (27) condotto su due comunità yugoslave molto simili per corredo genetico, attività fisica, esposizione solare ma differenti per carico di calcio: 400 mg/giorno in una, 900 mg/giorno nell’altra. Ebbene, la prima comunità soffriva di maggiori osteopenia ed osteoporosi, contrariamente alla seconda. Sembra proprio che l’organismo non riesca ad adattarsi più di tanto se per lunghi periodi la quota giornaliera scende sotto i 500 mg (per i quali è sufficiente poco più di una tazza di latte). E’ grazie a questa elasticità che molte fonti (ad es. (2)) ritengono le indicazioni americane (1000 mg per gli adulti) ma anche quelle europee (800 mg) un po’ troppo “abbondanti”, ma attenzione: questa elasticità funziona solo se il meccanismo di assorbimento attivo funziona a dovere, e dunque se i livelli di vitamina D sono adeguati. In molti paesi con economie povere (Africa, ad esempio) l’apporto quotidiano di calcio è bassissimo, al limite del sufficiente, ma l’esposizione solare è abbondante, come anche l’attività fisica, cosa che non accade da noi. Alla luce di questo le linee guida europee paiono adeguate alle nostre latitudini e abitudini, pur tenendo conto di questa capacità di adattamento.

Come vedremo meglio più avanti parlando di biodisponibilità, è anche questa elasticità del meccanismo che giustifica le apparenti variabilità delle percentuali di assorbimento che si riscontrano nei vari studi.

Perdere è peggio che non guadagnare. Anche considerando questa adattabilità del sistema, un fattore decisivo per l’osteoporosi, più di quanto calcio assumiamo, è la sua eccessiva perdita, che trova le sue cause principali nella sedentarietà e nell’acidosi causata da un eccesso di proteine nella dieta, ma anche ad esempio nella carenze di alcune vitamine (vitamina D in testa) o nell’eccesso di sale, tutte cose che, chissà perchè, ci ricordano lo stile di vita occidentale moderno… Vedremo più avanti i particolari, ma è fondamentale capire che la perdita eccessiva è peggiore del mancato reintegro, poichè rimettere calcio nelle ossa è per l’organismo molto più difficile: necessita della concomitanza di molti fattori favorevoli (attività fisica, situazione ormonale, giusta quantità di minerali, vitamine D e K, …), mentre l’erosione ossea viene scatenata molto più facilmente e senza troppe spiegazioni nelle situazioni in cui il metabolismo ha urgenza di minerali.

Chi controlla il metabolismo del calcio? Il mantenimento del giusto livello di calcio nel sangue (calcemia) e il metabolismo di questo minerale sono troppo importanti perchè la natura li demandi ad un solo meccanismo di controllo, perciò l’organismo si affida all’intreccio di almeno quattro ormoni, le cui azioni si completano e controllano a vicenda (PTH, calcitonina, vitamina D, ormoni sessuali).

L’ormone paratiroideo (o paratormone, o PTH – ParaThyroid-Hormone) viene prodotto dalle paratiroidi quando la concentrazione di calcio nel sangue diminuisce. Ha diversi effetti:

  • aumenta il riassorbimento renale del calcio a livello del tubulo distale
  • aumenta l’eliminazione renale del fosforo (che come vedremo ha un metabolismo “antagonista” al calcio)
  • attiva ed aumenta a livello renale l’attivazione della vitamina D (di contro, alti livelli di vitamina D attivata rallentano la produzione del PTH)
  • Agisce su osteoclasti (li attiva, e cominciano ad erodere l’osso) e su osteoblasti (li frena, smettono di depositare) ottenendo come risultato un passaggio di calcio e fosforo dall’osso ai liquidi extracellulari e poi al sangue (la calcemia risale)
  • Indirettamente, tramite l’attivazione della vitamina D, aumenta l’assorbimento intestinale di calcio

Già a questo punto si intuisce quanto sia importante un apporto costante di calcio con l’alimentazione: se il calcio nel sangue non è continuamente reintegrato con quello assorbito dagli alimenti le paratiroidi si accorgono del calo e tramite il PTH vengono intaccate le scorte (le ossa). Se il calcio alimentare è insufficiente per lunghi periodi, è evidente quale possa essere il danno osseo.

La calcitonina, invece, entra in gioco quando la calcemia sale. Viene prodotta dalla tiroide ed è antagonista del PTH:

  • aumenta l’eliminazione renale del calcio
  • rallenta l’attivazione nei reni della vitamina D
  • frena l’azione degli osteoclasti e stimola quella degli osteoblasti (promuovendo il deposito di calcio nelle ossa)
  • Indirettamente, frenando l’attivazione della vitamina D, diminuisce l’assorbimento intestinale del calcio

Abbiamo parlato finora di attivazione della vitamina D, come se dovesse essere accesa per funzionare. In effetti la forma veramente efficace, che agisce come un vero e proprio ormone, diventa tale dopo aver passato tre diversi stadi (tramite due successivi livelli di attivazione), da una forma “non attiva a quella “pre-attiva a quella “super-attiva. Questo succede perchè la forma super-attiva della vitamina D ha un effetto molto potente e non sarebbe possibile tenerne in circolo una quantità eccessiva: viene prodotta solo quando serve e nelle quantità esattamente necessarie. Le rare supplementazioni di vitamina D super-attiva sono infatti estremamente delicate, vengono dosate con molta attenzione e costantemente monitorate.

L’organismo si procura la vitamina D non attiva (protovitamine D2 e D3) da tre fonti principali (in ordine decrescente):

  • Nella pelle, dove per effetto dei raggi solari (per l’esattezza degli UV-B) e partendo da un derivato del colesterolo (il 7-deidro-colesterolo) si forma la vitamina D3 (colecalciferolo). Alle nostre latitudini circa l’80% della vitamina D proviene da questa fonte
  • Dagli alimenti animali contenenti vitamina D3 (sempre derivata da parte loro, con lo stesso meccanismo, dal 7-deidro-colesterolo), come olio o fegato di pesce, tuorlo d’uovo, latticini
  • Dagli alimenti vegetali (piante e lieviti) che con un meccanismo simile, partendo dall’ergosterolo e sempre grazie alla luce solare, producono la vitamina D2 (ergocalciferolo). E’ quella che viene spesso usata per rinforzare gli alimenti

Le vitamine D2 e D3 così entrate in circolo tendono a depositarsi nei tessuti adiposi e (meno) nel fegato, e fungono da scorta di lunga durata (per l’inverno) di vitamina D da attivare. All’occorrenza il fegato le converte in calcidiolo (è questo il primo livello di attivazione), la forma pre-attiva e che serve come scorta di breve durata “pronta per l’attivazione” che a sua volta si deposita in fegato, muscoli e tessuto adiposo. Il fegato cerca di mantenere la quantità di calcidiolo ad un livello tale che, se e quando serve (ad esempio quando il PTH sale), viene attivata nei reni e trasformata finalmente nella forma super-attiva calcitriolo, la vera vitamina D. Il calcitriolo, cioè la vitamina D super-attiva, ha questi effetti:

  • Aumenta nell’intestino l’assorbimento di calcio e fosforo
  • Stimola gli osteoblasti a depositare minerali nelle ossa
  • Nel rene regola la propria sintesi (feedback): se nei tessuti viene utilizzata e il livello nel sangue cala, la produzione continua, se no l’attivazione viene frenata (sempre per non eccedere nella quantità di vitamina D super-attiva circolante)

La vitamina D super-attiva è un ormone molto potente e ha, oltre che nel metabolismo del calcio, molteplici altri effetti che vanno dall’attività muscolare al cuore al sistema immunitario alla regolazione dell’insulina ed è legata alla prevenzione di svariate forme di cancro, dell’ipertensione e pare anche del diabete di tipo II. Un ormone potente deve essere sempre sotto controllo, e anche per questo la sua emivita è breve, solo 2-4 ore, contro le 2-3 settimane del calcidiolo (quella pre-attiva). Come si può intuire, anche livelli eccessivi di vitamina D sono pericolosi, dunque la supplementazione fai-da-te è da evitare, e in genere deve essere seguita da un medico. Attenzione dunque ad integratori e alimenti fortificati presi di testa propria, in abbondanza e contemporaneamente (proprio per questo di solito gli alimenti con vitamina D aggiunta ne contengono quantità modeste). Nessun problema invece per quella che l’organismo produce da sè in seguito all’esposizione al sole: si auto-regola in base ai livelli già circolanti.

Da ultimi, gli ormoni sessuali (estrogeni, androgeni) esercitano una notevole influenza sul metabolismo del calcio in situazioni particolari (gravidanza, allattamento, crescita, …), ma non solo. Ad esempio, l’importanza degli estrogeni si vede dal fatto che dopo la menopausa la massa ossea nelle donne cala velocemente, tanto da rendere necessaria una maggiorazione della quota giornaliera di calcio, a causa di un meccanismo di minore assorbimento intestinale e maggiore perdita renale. Nell’uomo il calo degli ormoni androgeni (testosterone) è più lento che nella donna, ma dopo l’andropausa il meccanismo e gli effetti sono gli stessi, anche se più diluiti. Alla fine il minore assorbimento e la maggiore perdita, sommandosi, portano gli anziani fino ad un 20-25% di minore sfruttamento del calcio ingerito con gli alimenti. Di contro, durante la gravidanza e l’allattamento, l’iperproduzione di estrogeni e vitamina D stimola l’assorbimento intestinale e la ritenzione a livello renale, come durante la crescita. Durante l’adolescenza, quando lo scheletro si sta costruendo e si va verso il picco di massa ossea, grazie alla favorevole situazione ormonale il bilancio del calcio può essere positivo anche di 200-300 mg al giorno, che se non vengono sprecati con uno stile di vita non corretto vanno tutti in accrescimento delle ossa.

L’interessante mistero del calcio e dell’evoluzione. E’ curiosa, nell’uomo rispetto agli altri animali, la perdita urinaria di buona parte del calcio ingerito, che concorre a rendere più difficile averne a disposizione per il deposito “riparativo-migliorativo” della massa ossea (19). In più nell’uomo occidentale moderno gran parte dei movimenti di minerali da e verso le ossa sembrano dedicate più al mantenimento dell’omeostasi della calcemia (più prioritaria e soggetta ai repentini sbalzi ormonali del PTH) che al deposito osseo (meno prioritario e dai ritmi più lenti). Anche ricerche sugli scheletri fossili anteriori alla nascita dell’agricoltura testimoniano un moderno raddoppio dell’andirivieni di calcio dalle ossa per il mantenimento della calcemia (30). Come mai? Una possibile spiegazione sta nella quantità di calcio ingerita oggi rispetto ai primordi dell’evoluzione: è come se l’organismo fosse abituato ad una assunzione di calcio che oggi definiremmo imponente, quantità su cui è ancora “programmato” ma che oggi non riceve, costringendolo a lavorare al risparmio e sempre sul filo del bilancio negativo, alle prese con un meccanismo di assorbimento e controllo abituato all’abbondanza. Sembra che, alle nostre attuali dosi di calcio, una volta risolta la stabilità della calcemia nel sangue, poco rimanga per le ossa, il che spiegherebbe la cattiva qualità generale degli scheletri del mondo civilizzato. Oltre al fatto che questo sia dovuto al non raggiungimento delle dosi consigliate di calcio, sembra proprio esserci una tendenza dovuta ad un “salto” evoluzionistico-antropologico. Le spiegazioni sono ancora piuttosto approssimative, ma un’ipotesi interessante (21)(25) è che il passaggio preistorico dell’alimentazione da cacciatore-raccoglitore a quella di agricoltore-pastore abbia fatto passare dal 5% a oltre il 50% sul totale la quota di energia proveniente dai semi (cereali), meno ricchi di calcio e potassio e per di più dotati di proteine con aminoacidi in maggior parte solforati (e quindi più acidificanti), portando nel complesso l’uomo ad assimilare meno calcio rispetto ai numerosi millenni precedenti (come contropartita non da poco: l’inizio della civiltà). Questa carenza è stata anche esasperata da migrazioni verso latitudini nordiche alle quali la vitamina D nella pelle viene sintetizzata molto meno. E’ interessante notare come natura e uomo abbiano subito cercato di correggere la situazione con lo schiarimento della pelle e l’utilizzo del latte proveniente dalla pastorizia, recuperando sia la vitamina D che il calcio mancanti, e che la natura abbia avallato la scelta con la persistenza in queste popolazioni dell’enzima lattasi anche in età adulta. Questo circa 12000 anni fa, forse ancora pochi per un adattamento definitivo. Insomma sembra che la natura ci stia ancora lavorando. D’altra parte nessuna specie animale ha avuto un cambiamento così strutturale dell’alimentazione in così pochi millenni… sempre affascinante lo studio dell’evoluzione umana. Penso che per giustificare quel “raddoppio” del rimodellamento osseo andrebbero considerate anche altre responsabilità dello stile di vita moderno, ma siamo ancora alle ipotesi e ulteriori ricerche sembrano necessarie. Ad esempio il nostro metabolismo potrebbe essere ancora tarato su tanti piccoli pasti frequenti (come fanno molti mammiferi) con un apporto più costante di calcio, mentre oggi concentriamo tutta la dieta in due, se va bene tre pasti principali, con una calcemia che tende ad essere intermittente e dunque in balia del PTH che promuove il turnover osseo. E’ un filone interessante che va seguito con attenzione, e sono comunque tutte considerazioni che incoraggiano ancor più un’assunzione adeguata di questo minerale e che ci fanno annotare un’altra variabile (questa volta evoluzionistica) nel gioco della multifattorialità.

Miti, leggende e co. Su calcio e osteoporosi girano un bel po’ di leggende, molte delle quali provenienti da errate interpretazioni o (peggio) mistificazioni del fronte “no-latticini” che galoppa per il web e non. Credenze che è meglio conoscere, per poter giudicare con cognizione le notizie che ci propinano e capire dove vanno a parare gli imbonitori di turno.

Non pensiate assolutamente che io sia un sostenitore dei latticini, che in eccesso (come qualsiasi altro alimento) non vanno sicuramente bene (ma nella giusta quantità sì). Iniziamo perciò smentendo una diffusa leggenda, che è quella che il calcio vegetale sia poco o niente biodisponibile. Vedremo maggiori particolari più avanti (biodisponibilità) ma intanto anticipiamo che ad esempio il calcio delle crucifere (cavoli, broccoli, ecc.) è anche più disponibile di quello del latte, e in più molti di questi vegetali ne sono ricchi quanto il latte. Una leggenda simile a questa (e ancora molto radicata) è quella che l’acqua ricca di calcio (dura, calcarea, …), oltre a non renderlo disponibile, sia nociva e provochi addirittura i calcoli. Ovviamente non è vero niente, anzi il calcio dell’acqua è biodisponibile quanto quello del latte (vedi oltre) ed è perfettamente inutile (anche riguardo i calcoli) la corsa alle acque a bassissimo residuo fisso.

Una leggenda sempre diffusa è quella che nei paesi dove si consumano più latticini sia più alta l’incidenza di osteoporosi. Bene, basta leggere con la dovuta pazienza e attenzione i rapporti epidemiologici dell’OMS e delle varie organizzazioni per la lotta alla osteoporosi (11)(12) per rendersi conto che questa patologia è ormai spalmata su tutto il pianeta, e che i latticini c’entrano come i proverbiali cavoli a merenda. Qualche dato? La Cina, presa spesso come esempio virtuoso di “no-latte -> zero osteoporosi” ha un’incidenza comparabile con gli altri paesi (e in certi casi più alta):

Osteoporosi (non necessariamente legata a fratture) in persone con più di 50 anni in alcuni paesi (11)(12):

  • Svezia: donne 46%, uomini 23%
  • Danimarca: donne 41%, uomini 18%
  • USA: donne 40%, uomini 13%
  • Cina: donne 30%, uomini 9%
  • India: donne 29%
  • Australia: donne 27%, uomini 11%
  • Spagna: donne 26%
  • Canada: donne 25%, uomini 15%
  • Argentina: donne 25%
  • Italia: donne 25%, uomini 10%
  • Cile: donne 22%

Attenzione infatti a non prendere solo in considerazione il tasso di fratture, che può essere fuorviante. Per di più le etnie asiatiche hanno alcuni fattori protettivi che giustificano una minore diffusione delle fratture osteoporotiche: angolo del collo del femore minore, femore più corto, diffusa abitudine (per lo meno nelle vecchie generazioni) a sedersi accovacciati (squatting) che è protettiva per le anche, minore sedentarietà, e soprattutto età media della popolazione più bassa. La verità, come suggerisce la lettura dei vari rapporti, è che ci sono ben altre variabili che hanno fatto innalzare a livello mondiale l’incidenza dell’osteoporosi, pur mantenendola leggermente “indietro” nei paesi meno avanzati: svetta su tutte l’urbanizzazione, che porta a cascata ad una minore attività fisica, minore vita all’aria aperta, minore irraggiamento solare (meno vit. D), meno lavori pesanti, alimentazione più “industriale” (in più, nei paesi emergenti la migrazione verso le città è fatta per scarse risorse economiche, dunque l’alimentazione è pure carente). Esistono specifiche ricerche sui paesi dell’estremo oriente che confermano come nelle aree urbanizzate l’osteoporosi si sia allineata a quella occidentale (nonostante la dieta sia rimasta per lo più quella tradizionale del posto), per rimanere più bassa nelle aree rurali, ma dove le fratture hanno anche un peso statistico minore perchè vengono trattate in casa e non denunciate od ospedalizzate. Nel caso dei paesi scandinavi la responsabilità della maggiore incidenza è legata alla dieta (molte proteine, molto raffinata, molto salata), alla minore esposizione solare, alla sedentarietà, ai migliori strumenti sanitari di diagnosi (ma c’è di più: grazie alla prevenzione, da una decina d’anni in molti di questi paesi l’osteoporosi sta regredendo).

Un’altra divertente leggenda anti-latticini è la sempreverde “teoria del muco“, derivata dall’eredità culturale della vecchia medicina galenica. Per essere ancora più sicuri dell’inconsistenza di questo mito sono anche state fatte ricerche specifiche, nessuna delle quali è riuscita a trovare una correlazione fra latte e produzione di muco. Per la cronaca, quando ho il raffreddore il latte caldo (di quello buono) ha l’effetto di fluidificarmi il muco, altro che renderlo più denso… comunque c’è uno spunto interessante, visto che la teoria del muco si basa sull’asse “latte -> allergia/intolleranza -> muco”: sono in corso ricerche (per il momento con conclusioni ancora poco pubblicate) che dimostrerebbero che il latte biodinamico (nei soggetti predisposti) sia molto meno “allergizzante” di quello industriale (ne riparleremo più sotto, alla voce “latticini”). Il problema per la questione muco riguarderebbe più il come viene prodotto il latte piuttosto che il latte stesso, ipotesi plausibile.

Un’altra argomentazione del fronte no-latte è che nessun animale oltre l’uomo beve il latte degli altri animali. Affermazione lapalissiana, direi: ve lo immaginate infatti un qualsiasi animale, in natura, con le sue zampette, mungere una capra, una pecora o una mucca o un qualsiasi mammifero senza ricevere in questi tentativi un sonoro calcio sul muso? Ma quando ce l’hanno a disposizione… provate a spiegare ai gatti e cani che non devono bere il latte che trovano nella ciotola perchè il latte non è di gatta o di cagna (latte, quest’ultimo, che fra l’altro era venduto e pure apprezzato già nell’antica Roma…), oppure agli uccelli che in passato avevano imparato ad aprire il tappo di alluminio delle bottiglie di latte consegnate la mattina davanti alle case di molti inglesi. Basta poi parlare con qualsiasi contadino per sapere che i maialini in sovrannumero che le scrofe non riuscivano ad allattare venivano allevati con successo a latte di mucca. Dobbiamo sempre tener presente che nessun cibo è adatto all’uomo, ma è l’uomo che si è adattato al cibo. Anzi paradossalmente il latte, il cui scopo è proprio quello di essere un alimento, è per principio esente da tossine, mentre le piante, per difendersi da noi predatori, producono tossine e sostanze dissuasive a migliaia. Sul fatto che una volta che non siamo più “cuccioli” dovremmo smettere di bere latte l’evoluzione ha già risposto 12000 anni fa con la permanenza in molte popolazioni dell’enzima lattasi anche in età adulta (persistenza della lattasi, vedi più avanti).

Ultimo arrivato nel gruppetto delle leggende anti-latte è l’ormai mitico fattore di crescita simil-insulinico IGF-I (insulin-like growth factor), che con una catena di ragionamenti un po’ forzosi collegherebbe i latticini all’IGF-I ad una maggiore incidenza di cancro. E’ bene sapere che l’IGF-I non è presente nei latticini (se non in minimissime quantità) ma viene naturalmente prodotto dal nostro organismo in risposta a esercizio fisico, apporto di proteine e introito calorico (sembra più per i carboidrati che per i grassi), ed è fondamentale per la crescita e il ricambio dei tessuti. Sia una quantità insufficiente che una eccessiva di IGF-I è ugualmente dannosa per le ossa, come è anche ovvio che in presenza di cellule cancerose un fattore di crescita sia in generale pericoloso, e tutto questo vale indipendentemente dai latticini. Quella che è tirata per i capelli è la presunta responsabilità di questi ultimi, probabilmente derivata da una forzosa interpretazione delle ricerche che vengono spesso citate. Dire infatti che “i latticini aumentano i livelli di IGF-I circolanti nel sangue” senza dire di quanto li aumentano non è molto utile per capire, cosa che invece si può fare andando a leggere i vari studi (ad esempio (31), (32) e (33)), dai quali si apprende ad esempio che per il formaggio l’aumento non c’è proprio, per lo yogurt è comparabile a quello del pane e per il latte a quello della pasta o dei cereali in grani. Basta poi considerare qualche altra variabile (come il sovrappeso, o altri elementi della dieta) per vedere che le percentuali di aumento (5%-8% per consumi normali di latte e latticini) vengono facilmente mascherate dagli altri fattori, fra cui anche quello genetico individuale. Ulteriore spunto di riflessione il fatto che da studio a studio le percentuali risultano diverse, spesso contrastanti, segnale del fatto che qualche meccanismo non è stato ancora ben compreso, e che lo studio dell’IGF-I è ancora un territorio in esplorazione (17). Altri fattori fuorvianti possono essere l’uso di fattori di crescita usati negli allevamenti intensivi americani (autorizzati laggiù dai primi anni ’90, ma super-vietati, almeno teoricamente, in Europa), che possono passare nel latte, e un evidente abuso di latticini che viene fatto in Nord America, che incide non poco sui risultati dei questionari utilizzati per gli studi. Insomma, per farla breve, ancora troppo pochi elementi per scrivere sul granito che esistono legami fra un qualsiasi alimento prodotto e consumato in modo corretto e gli effetti dell’IGF-I, soprattutto troppo deboli per farne uno dei maggiori punti di forza della campagna anti-latte, quando in più molti studi riportano che gli effetti protettivi ad ampio raggio dei latticini sovrastano comunque i modesti aumenti di IGF-I eventualmente presenti (33).

E DUNQUE COSA DOBBIAMO FARE?

Detto questo vediamo, divisi per argomento, i principali fattori che è utile tenere sempre sotto controllo per salvaguardare lo stato di salute delle nostre ossa e tirare le somme del problema salute della ossa – calcio – osteoporosi.

ESERCIZIO FISICO. C’è un motivo per cui è il primo della lista? Certo che sì, perchè è il più importante. Se un singolo comportamento alimentare (ad esempio bere o meno latte da piccoli o eccedere nel sale) nell’arco della vita può incidere del 5-6% sulla massa ossea, la sedentarietà può pesare ben oltre il 10%. Un’ottima alimentazione senza un sufficiente esercizio fisico può essere inutile (e non solo riguardo le ossa…), mentre con la corretta attività fisica può portare ad una eccellente salute dello scheletro. Non pensiate che occorra essere atleti o che ne serva molta: quello di cui le ossa hanno bisogno è il movimento che faccia sentire loro tutto il peso del corpo, dunque camminare (sono sufficienti 30-40 minuti di buon passo al giorno) o correre per chi può, mentre sono meno influenti le attività in cui il peso del corpo è secondario (come nuoto e bicicletta, che però fanno benissimo a cuore, muscoli e articolazioni). La stimolazione meccanica ritmica e continua tipica del camminare e del correre aumenta il deposito di calcio nelle ossa di gambe (collo del femore…) e schiena (vertebre), e uno stile di vita attivo pensa poi anche a braccia e collo. Non è necessario fare agonismo ma l’attività (moderata) va fatta per sempre, soprattutto nell’età avanzata in cui si tende a muoversi sempre meno. La mancanza di stimolo fisico tende a ridurre il deposito di calcio nelle ossa. Pensate che gli astronauti, dopo mesi di vita in orbita a gravità ridotta, perdono fino al 13% della massa ossea. A percentuali non tanto diverse arrivano i malati cronici costretti all’immobilità a letto, ma anche passare la giornata spostandosi sempre in auto, in ascensore evitando le “faticose” scale, passando pomeriggi e serate sul divano davanti alla TV e weekend a giocare ai videogames invece di uscire, porta sulla stessa strada. Solitamente uno stile di vita simile è spesso accompagnato da un’alimentazione inadeguata e le due variabili alimentazione ed esercizio fisico, in questo caso negativamente sinergiche, ci portano a braccetto verso l’osteoporosi, neanche troppo senile.

Visto che si è parlato di percentuali è interessante sapere cosa significhi perdere ad esempio il 10% di massa ossea, o che (come vedremo) non mangiare latticini da piccoli può diminuirla del 5%-6% da anziani: sono percentuali importanti? Se avete avuto a che fare con qualcuno che ha misurato la massa ossea (avrà fatto una MOC) vi avrà parlato di T-score, ossia di quante deviazioni standard si discosta dalla media. Visto che sapere il T-score se non si è addetti ai lavori non dice molto, è bene sapere che ad ogni deviazione standard corrisponde circa il 10% di massa ossea. Nell’immagine è riportata la classificazione di osteopenia (perdita di minerali dall’osso) e osteoporosi (perdita patologica di minerali con rischio fratture) in base al T-score. Facendo i conti si intuisce al volo che se la nostra massa ossea si è rovinata a causa della sedentarietà, l’alimentazione non è stata adeguata e magari il picco di massa ossea non è stato ottimale, arrivare in zona osteoporosi (-25%) non è poi così difficile (come dimostrano peraltro le statistiche…).

Quanto sia importante l’attività fisica lo si vede ad esempio nello studio (22), dove si conferma che aumentando attività fisica e calcio introdotto le fratture in tarda età diminuiscono drasticamente: nella dieta tradizionale cinese l’apporto di calcio è basso ma è sempre stata alta l’attività fisica, che con la recente urbanizzazione è però calata molto. Questo ha smascherato il basso introito di calcio che era tamponato dall’attività, vedendo alla fine salire il tasso di fratture da osteoporosi.

CALCIO, MA NON SOLO. Il calcio è importante, ma anche altri minerali sono fondamentali per la crescita e il mantenimento dello scheletro, e non devono passare in secondo piano solo perchè di alcuni ne servono piccolissime quantità.

  • Fosforo. I cristalli di idrossiapatite che formano l’osso sono formati da fosfato di calcio. Il rapporto fra calcio e fosforo nelle ossa è di 2.5:1, mentre nel sangue è di 2:1. Già questo fa intuire come sia meglio avere una dieta con un rapporto calcio/fosforo favorevole al calcio. Non è tanto importante incaponirsi sui soli alimenti con questa caratteristica, ma che almeno il pasto nel complesso abbia questo rapporto più alto di 1:1. Il fosforo tende a competere con il calcio, e condivide anche parte dei meccanismi di assorbimento (dipende anch’esso dalla vit.D): se uno sale l’altro tende a scendere. Anche l’eliminazione renale del fosforo è modulata dal PTH, ma in maniera speculare. Entrambi però si aiutano a vicenda per la mineralizzazione dell’osso.
    Il fosforo si trova negli alimenti ricchi di proteine, e ne sono più ricchi cereali e legumi; seguono carne, uova, latticini. Ma il rapporto calcio/fosforo è molto sfavorevole nella carne (nell’ordine di 1:15), mediamente sfavorevole in uova, legumi e cereali (1:2), mentre è molto favorevole in latticini e verdure a foglia verde. Il fosforo degli alimenti animali è più assorbibile, nei vegetali è presente per lo più come acido fitico. Non dobbiamo comunque preoccuparci del fosforo: praticamente impossibile una sua carenza. Piuttosto che non sia troppo rispetto al calcio. Per girare a nostro favore il rapporto Ca/P della dieta, latticini e vegetali a foglia verde ricchi di calcio sono un valido aiuto, e nella scelta della fonte di proteine animali i latticini si dimostrano migliori della carne anche in questo caso.
  • Potassio. I risultati di molti studi (8) sembrano convergere sul fatto che il potassio sia molto legato alla salute delle ossa. Frutta, verdura e legumi ne sono ricchi, e sembra avere un ruolo decisivo per il loro effetto alcalinizzante, e dunque salva-calcio. Quando infatti si prendono in considerazione studi multi-varabile in cui sono esaminati insieme gli effetti di calcio e potassio, questo risulta più determinante ai fini della densità ossea: anche con abbondanza di calcio, se il potassio è scarso le ossa sono peggiori rispetto alle situazioni con poco calcio ma abbondante potassio. Questo perchè il potassio limita la perdita di calcio, fornendo la controprova che più importante di un grande introito di calcio sia limitarne le perdite. Nel latte materno il rapporto potassio-calcio è alto, probabilmente per favorire lo sviluppo osseo. Potassio aggiunto ad una dieta ricca di proteine riduce l’eliminazione urinaria di calcio e aumenta il livello di osteocalcina, che facilita il deposito nelle ossa. Come procurarci abbastanza potassio? Tranquilli, le classiche cinque porzioni di frutta e verdura consigliate dalle linee guida sono più che sufficienti a fornire tutto il potassio che ci serve, e dunque un’alimentazione naturale ne fornisce in abbondanza.
  • Magnesio. Due terzi dei 25 grammi di magnesio presenti nell’organismo sono immagazzinati nelle ossa. Se la dieta è carente di magnesio il calcio non viene assorbito bene, probabilmente perchè il magnesio interviene nella produzione del PTH, e una sua carenza ne squilibra la secrezione (18) con effetti a cascata sull’attivazione della vitamina D e dunque sull’assorbimento del calcio. Il magnesio si trova in quantità più che sufficienti in cereali integrali, semi oleosi, legumi.
  • Fluoro. In piccole quantità migliora la robustezza di ossa e denti. Viene assorbito quasi del tutto per diffusione passiva nell’intestino tenue, e va subito nelle ossa. Tuttavia, ha la caratteristica di non essere poi facilmente rilasciato, tendendo col tempo ad accumularsi. Un eccesso può provocare fluorosi e diventare tossico (18), oltre che rendere le ossa troppo rigide. Le fonti principali sono l’acqua potabile (ma dipende molto dal terreno da cui viene estratta), il pesce e i frutti di mare, ma con un’alimentazione equilibrata non si corrono rischi nè di carenza nè di eccesso.
  • Altri minerali utili per le ossa sono manganese, rame, zinco. Anche per questi, un’alimentazione naturale equilibrata ne fornisce a sufficienza.

VITAMINA D. Solo negli ultimi trent’anni gli studi sulla vitamina D hanno svelato la sua importanza per il nostro organismo. Il problema è che, contemporaneamente, lo stile di vita occidentale ha ulteriormente peggiorato, rispetto ai secoli passati, le abitudini di vita all’aria aperta e la conseguente produzione di vitamina D nella pelle. Non sono pochi gli studiosi che ritengono la carenza ormai endemica di questa vitamina come la concausa di molte patologie di massa, dall’osteoporosi ovviamente ma anche arrivando a patologie cardio-vascolari, diabete, cancro. Rimanendo all’argomento del post, una carenza di vitamina D fa sì che, anche assumendo grandi quantità di calcio, il suo utilizzo sarà mediocre (il meccanismo attivo non funziona e le ossa non accolgono il calcio in circolo), ed espone per di più agli effetti negativi di un eventuale iperdosaggio di calcio (vedi oltre). Il rimedio? La luce del sole. Per i nostri antenati preistorici non era un problema, visto che la vita all’aria aperta era d’obbligo. E’ diventato più un problema invece ai giorni nostri, in cui molti passano buona parte della giornata al chiuso (il lavoro, la vita cittadina, ecc.). Anche stare dietro una luminosissima vetrata serve a poco, in quanto i raggi UV-B vengono quasi interamente schermati. Occorre proprio stare all’aperto, e non serve che ci sia sempre il sole, basta la luce. Alle nostre latitudini, in estate, sono sufficienti 60 minuti al giorno con viso e braccia scoperte (anche meno se lo sono anche le gambe) per avere la vitamina D che ci serve e fare anche scorta per l’inverno. E’ questo il metodo più naturale per procurarcela, e fornisce anche la scusa per fare attività fisica all’aperto (ma basta anche una passeggiata). La via degli integratori infatti, come visto prima, è un terreno minato, e la supplementazione fai-da-te con alimenti fortificati o, peggio, pastiglie è come maneggiare una bomba a mano. Praticamente impossibile invece assumerne troppa con un’alimentazione naturale e l’esposizione anche abbondante al sole.

Con questi primi tre punti abbiamo definito le tre colonne portanti per la lotta all’osteoporosi: esercizio fisico, introito di minerali, vitamina D. Qualsiasi intervento che non le comprenda tutte e tre non sarà mai del tutto efficace. Ma c’è di più.

PROTEINE: in giusta quantità. A parte le cellule delle ossa (osteociti), circa la metà del volume dello scheletro è costituito da proteine. Gli stessi osteoblasti, le cellule preposte al deposito dei minerali nelle ossa, producono le proteine per il collagene che fa da base alla matrice ossea, ma anche altre proteine come l’osteocalcina e l’osteonectina, anch’esse utilizzate per costruire le ossa. Un corretto apporto di proteine è dunque necessario, ma per le ossa sono un’arma a doppio taglio: un eccesso alimentare di proteine è infatti una delle cause principali dell’osteoporosi. Eppure il corretto fabbisogno di proteine in una dieta è la cosa più facile da calcolare: 1 grammo per kg di peso corporeo al giorno (attenzione: per chi è sovrappeso la quantità va calcolata sul peso ideale). Le proteine che assumiamo con gli alimenti servono al ricambio di cellule e tessuti, comprese le ossa, e non devono quindi mancare mai. I guai arrivano quando la quota viene superata: in questo caso l’organismo è costretto a demolire le proteine in eccesso a scopo energetico, ma questo processo genera molte scorie, dall’ammoniaca (grande fatica per fegato e reni) a cospicue scorie acide, che per essere neutralizzate necessitano di un sistema tampone costruito utilizzando anche molto calcio. In caso di necessità i minerali necessari sono attinti dalle ossa. Più o meno per ogni grammo di proteine utilizzato a scopi energetici l’eliminazione di calcio aumenta di 1 mg, perdita legata anche ad un meccanismo di minore riassorbimento renale. Con un assorbimento medio dai cibi del 35%, si stima che per ogni grammo di proteine servano 3 mg di calcio dagli alimenti, dunque con 70 grammi di proteine in eccesso (bastano meno di un paio d’etti di carne oltre il necessario) è facile avere un fabbisogno aggiuntivo di circa 200 mg di calcio. Una situazione di questo tipo proseguita per anni può avere un effetto devastante sulle ossa.
Ma attenzione, perchè sembra (26) che neanche un maggiore apporto di calcio aiuti più di tanto a contrastare questa perdita urinaria (ipercalciuria): il meccanismo di minore riassorbimento renale tende a vanificare eventuali supplementazioni preventive e affatica ancora di più i reni.

Gli effetti negativi a lungo termine di una dieta iperproteica sulle ossa sono più che noti. In un celebre studio (10) sono stati confrontati due campioni di donne dai 50 agli 89 anni, onnivore le prime e lacto-ovo-vegetariane le seconde: con l’avanzare degli anni queste ultime avevano perso il 18% di massa ossea contro il 35% delle prime. Si stimò che questo non fosse dovuto nè al diverso apporto di calcio (più o meno simile nei due campioni) nè ad un diverso picco di massa ossea in gioventù (simile anch’esso) ma al corretto (e minore) introito di proteine delle lacto-ovo-vegetariane con conseguente minore perdita di calcio rispetto alle onnivore, alle quali risultava più facile eccedere nel consumo.

Attenzione: tutte le proteine, siano esse vegetali o animali, se demolite a scopo energetico generano scorie acide. Soprattutto quelle con aminoacidi solforati, è vero, ma anche molti vegetali ne sono ricchi (cereali). Non è vero dunque che le proteine vegetali siano meno acidificanti di quelle animali: sono i vegetali e essere meno acidificanti, poichè la differenza non la fa tanto il tipo di proteine ma gli alimenti che le contengono, e l’abuso. I vegetali sono alcalinizzanti poichè le loro proteine sono generalmente di meno e accompagnate da svariate e abbondanti sostanze alcalinizzanti, mentre la carne non ha questo profilo. Nell’assumere proteine animali e non dovendo eccedere visto il pericolo di acidosi, conviene eliminare le fonti proteiche poco o niente ricche di calcio come la carne e privilegiare quelle con un bilancio del calcio migliore, come i latticini. Se lo si fa con moderazione, è tutto guadagno. L’importante in ogni caso è non eccedere (con il totale delle proteine) la quota fisiologica di 1 grammo per kg di peso al giorno: tutto il resto aumenta lo spreco di calcio e mette in pericolo le ossa.

SODIO. Nell’organismo di un adulto ci sono circa 90 g di sodio, di cui il 40% nelle ossa come riserva, il resto sparso soprattutto nei liquidi extracellulari. E’ fondamentale per la concentrazione del sangue e dei fluidi extracellulari, per la trasmissione degli impulsi nervosi e la contrazione dei muscoli. Il sodio si trova in quasi tutti gli alimenti al naturale, acqua compresa (e quello che potremmo ricavare da essi ci basterebbe), ma al giorno d’oggi la quantità maggiore di sodio arriva dal sale da cucina, aggiunto (spesso esagerando) agli alimenti sia come conservante sia come miglioratore del sapore, e molti non si rendono conto di quanto ne mangiano in forma “occulta”. Come per tutte le sostanze indispensabili, anche l’eccesso di sodio è dannoso, e a parte vari altri effetti (in primis l’ipertensione), quello che qui ci interessa è che ogni grammo di sodio che mangiamo ci fa perdere con le urine 15-20 mg di calcio (19). Siccome il sodio costituisce il 40% del sale da cucina (il resto è cloro), facendo due conti si ricava che la dose giornaliera massima di sodio consigliata dalle linee guida (2.4 g) corrisponde a 6 g di sale da cucina (un cucchiaino). Un ragazzo occidentale che frequenta i fast food e consuma molti snack salati arriva tranquillamente a 15 g di sale al giorno, dunque 6 g di sodio che fanno perdere almeno 100 mg di calcio, e attenzione che è calcio “netto”, perchè per avere quei 100 mg di calcio ne dovrà ingerire almeno il triplo. Una bella perdita. Pensate a quanto calcio va sprecato associando una dieta ricca di sale ad una ricca di proteine… e pensate al disastro per le ossa se la dieta è anche povera di calcio.

Il fattore sodio va tenuto ben presente nei formaggi: in latte e yogurt ce n’è pochissimo, ma nei formaggi il sale viene aggiunto fin troppo agevolmente. Meglio dunque preferire quelli meno salati, perchè ci può essere tanta differenza. Pensiamo ad esempio al pecorino romano, che penso sia il formaggio più salato della Terra, confrontato con parmigiano ed emmental:

Contenuto in sodio (fonte: INRAN):

  • pecorino romano 1800 mg / 100 g
  • parmigiano 600 mg / 100 g
  • emmental 450 g / 100 g

dunque il pecorino contiene il triplo del sodio rispetto al parmigiano, e ben il quadruplo rispetto all’emmental! Con una porzione da 50 g di pecorino se ne vanno circa 20 mg di calcio, che vanno tolti dai 180 mg di calcio “netti” che assorbiamo dalla porzione. Insomma circa il 10% del calcio del pecorino va sprecato a causa del sale.

Se ci teniamo alle ossa, dunque, estrema attenzione al sale che usiamo o assumiamo “nascosto” negli alimenti.

BIODISPONIBILITA’ e ASSORBIMENTO. Sapere quanto sia biodisponibile il calcio di un certo alimento facilita il calcolo per arrivare almeno al minimo sindacale quotidiano. Ovviamente, giusto per facilitarci le cose, non è così semplice. Gli esami sperimentali per stabilire quanto calcio di una pietanza passi effettivamente in circolo, potenzialmente a disposizione delle ossa, sono complessi. E’ difficile sapere con precisione quanto sia l’assorbimento per uno specifico alimento svincolato dal resto della dieta, dallo stato fisico e ormonale, dall’età. Più facile fare la stessa cosa con gruppi più vasti di alimenti (o l’intera dieta) e su modelli animali. Molti modelli animali, però, sono stati assunti per buoni anche per gli uomini ma senza controprove certificate, dunque vanno presi con le pinze (14). Detto questo, pur se con risultati caratterizzati da una certa variabilità, molti meccanismi comuni sono chiari.

E’ troppo generico dire ad esempio che il calcio vegetale sia poco disponibile. E’ vero che alcune sostanze contenute nei vegetali ne frenano l’assorbimento, ma non tutte allo stesso modo. Il meccanismo è invece sempre lo stesso: queste sostanze si legano al calcio con legami forti, che i nostri enzimi digestivi non riescono a sciogliere. In ordine decrescente di influenza:

  • ossalati: sono quelli che frenano di più l’assorbimento; fortunatamente, fra i vegetali comunemente usati, quelli veramente ricchi di ossalati sono pochi (spinaci e biete in testa, gli altri seguono a diverse lunghezze o si mangiano raramente, dunque influiscono molto meno) e alla fine il calcio “rubato” sembra non superare quello contenuto nel vegetale stesso (attenzione: prima di espellere biete e spinaci dalla cucina leggetevi il paragrafo sulla vitamina K più sotto).
  • fitati: si pensava peggio; in realtà il calcio reso non disponibile dall’acido fitico, se la dieta è corretta, non è molto e comunque l’effetto è molto minore rispetto all’acido ossalico.
  • fibre: se la dieta è corretta non limitano molto l’assorbimento del calcio; una frazione solubile della fibra, gli acidi uronici, sono i maggiori responsabili. Gli acidi uronici sono presenti in maggiore percentuale nella fibra di frutta e verdura (circa 40% della loro fibra solubile), meno nei cereali (10% della fibra solubile), e si lega facilmente ai minerali. Ma l’effetto finale degli acidi uronici non è così grave, poichè circa l’80% viene degradato dai batteri del colon, rendendo il calcio e gli altri minerali nuovamente assorbibili (almeno in parte, per diffusione).

Sono stati messi a fuoco anche i meccanismi di assorbimento del calcio dai vari latticini, o dall’acqua e, come dicevamo, analizzando i risultati dei vari studi ci si rende conto che la percentuale di calcio assorbito dagli alimenti è soggetta a molte variabili, fra cui la composizione dei pasti (pensiamo al rapporto calcio/fosforo ad es.) e dell’intera dieta, l’età (nei bambini e ragazzi è maggiore, negli anziani minore), il carico di calcio, addirittura la stagione (sole -> vitamina D), e da ultimo pure il metodo usato per misurarla. Una sintesi per adulti sani e consumi nella norma è questa (14), (19), (23), (24):

  • latte, yogurt, formaggi: a seconda dei casi il calcio viene assorbito dal 30% al 50%
  • verdure a foglia ricche di ossalati (per lo più spinaci e biete): dal 5% al 10%
  • verdure e ortaggi povere di ossalati (crucifere come cavoli, verze, cavolfiori, cavoletti di bruxelles ecc. e anche cicoria, radicchio, rucola, ricchi di calcio): fino al 50-60%, ma in alcuni casi anche di più
  • legumi e semi oleosi (per via di fitati e fibre): circa il 15%
  • acqua con un buon residuo fisso (un alto residuo è infatti tutt’altro che negativo) dal 25% fino anche al 47%

Insomma il calcio presente nei latticini, nelle verdure povere di ossalati e nell’acqua è più o meno assorbibile allo stesso modo e risulta il più utile e biodisponibile, mentre gli altri alimenti lo cedono in quantità minore. La migliore combinazione di quantità/biodisponibilità negli alimenti ce l’hanno senza dubbio queste tre categorie.
Un discorso a parte va fatto poi per gli alimenti ricchi di calcio assorbibile ma che si consumano in risibili quantità per vari motivi, che vengono spesso decantati come “alternativa” ai latticini ma alla lunga poco utili, con buona pace dei paladini del calcio vegetale a tutti i costi: ci importa poco ad esempio del calcio del prezzemolo, che non possiamo consumare che a foglioline, o di quello dei semi di sesamo che per essere determinante dovrebbe essere mangiato a suon di tazze tutti i giorni con un carico di grassi e di calorie improponibile, o di quello dei pesciolini che si mangiano con la lisca (perchè lì sta il calcio…), che non si riescono obbiettivamente a mangiare tutti i giorni (e per lo più fritti). Alla fine l’apporto determinante di calcio lo danno gli alimenti ricchi di questo minerale, che hanno un’alta biodisponibilità e che si possono consumare in porzioni adeguate tutti i giorni, e dunque crucifere e altre verdure con pochi ossalati, latticini in quantità moderata, acqua ricca di calcio. Tirandoli per i capelli, anche alimenti “fortificati” possono essere un buon supporto, come latti vegetali con aggiunta di calcio ricavato dalle alghe o tofu prodotto con calcio, ma difficilmente diventano alimenti diffusi, quotidiani e di lungo periodo come i precedenti, e comunque l’alimentazione naturale storce sempre il naso di fronte a qualsiasi “integrazione”.

Avrete capito che, oltre alla biodisponibilità (cioè quanto calcio un alimento può effettivamente rilasciare) è importante quanto riusciamo ad assorbirne. Questo aspetto è influenzato da diversi fattori, come la disponibilità di vitamina D che aumenta l’assorbimento intestinale, ma anche dalla dose. Il meccanismo di assorbimento saturabile tende infatti ad assorbire sempre meno calcio mammano che la quantità presente nell’intestino tenue aumenta, e anche quello non saturabile più di tanto nello stesso momento non ne fa passare attraverso le pareti intestinali: è stato osservato che a dosi piccole l’assorbimento è molto più efficiente, mentre a dosi elevate una parte del calcio passa oltre e viene “sprecata”. Anche la durata nel tempo di dosi più o meno elevate di calcio regola l’assorbimento: lunghi periodi a basse dosi aumentano la percentuale assorbita, lunghi periodi ad alte dosi tendono a diminuirla. La percentuale di assorbimento può variare da meno del 30% per alte dosi a più del 60% per i bassi dosaggi, e la quota di soglia sembrerebbe essere di circa 500 mg per pasto. Diverse fonti (15)(16) consigliano dunque di dividere il totale del calcio giornaliero in dosi minori di 500 mg per non sprecare il calcio ingerito. Bocciate in pieno le mega-assunzioni da 1000 mg per volta: sono inutili e affaticano i reni (non solo le pillolone, anche mangiarsi 80 g di parmigiano o un piatto di formaggi in una sola volta).

Qui sotto troverete una tabella (cliccare per ingrandire) che, tenendo conto di consumi normali (niente mega dosi) sintetizza le percentuali di biodisponibilità e assorbimento per diverse tipologie di alimenti, e per ognuno calcola la quantità di alimento necessaria per assorbire 100 mg “netti” di calcio, cioè effettivamente in circolo e disponibili per le ossa, e le calorie per queste quantità, consentendo di saggiare la praticabilità di usare certi alimenti come fonte conveniente di calcio.

Le percentuali di assorbimento riportate in terza colonna (“assorbimento %“) sono attendibili all’interno dell’intervallo che vedete: come abbiamo visto variano a seconda di vari fattori, e sono una sintesi delle varie fonti consultate (partendo da (14), (19), (23), (24)).
Dalla tabella si ricava che variando giornalmente fra tre “fonti” di diverso tipo si possono agevolmente assorbire i 300 mg “effettivi” di cui abbiamo bisogno e anche superarli. Ad esempio con un bicchiere di latte + un litro di acqua ad alto residuo + una porzione di crucifere superiamo abbondantemente la richiesta. La colonna delle calorie necessarie per assumere 100 mg di calcio effettivo serve anche ad evidenziare come non tutte le soluzioni “alternative” all’avere un (piccolo) aiuto dai latticini siano facilmente percorribili. Il sesamo, che nel campo dell’alternativo va per la maggiore, se usato decorticato (il calcio è soprattutto nella buccia) apporta un numero spropositato di calorie, ma anche nella versione integrale apporta il doppio delle calorie rispetto ai latticini, a parità di calcio assorbito.
Prezzemolo, salvia, rosmarino sono stati riportati come ulteriore esempio illusorio: in quest’ottica andrebbero consumati a mazzi, tutti i giorni… sicuri che sia una via percorribile, visto che l’uso normale è a pizzichi?

VITAMINA K. Nonostante molti la conoscano più per la sua importanza nella coagulazione del sangue, questa vitamina è fondamentale anche per la salute delle ossa. Vedremo subito perchè, ma per farlo riprendiamo la questione di spinaci e biete ricchi di ossalati e dunque apparentemente poco amici dell’assorbimento del calcio, perchè ora diventa interessante. Come dicevamo, ad una prima reazione si sarebbe tentati di bandire dalla dieta questo tipo di verdure, ma sarebbe una leggerezza che non tiene conto delle famose sinergie che stanno sotto l’apparente semplicità dei cibi. Dovete infatti sapere che proprio gli spinaci sono ricchissimi di vitamina K: una tazza di spinaci bolliti fornisce circa dieci volte la quantità giornaliera di vitamina K necessaria, più esattamente di vitamina K1, quella di origine vegetale (c’è poi la K2, di origine batterica). Anche se ne assumiamo così tanta non va sprecata, perchè essendo liposolubile tende ad accumularsi nel tessuto adiposo, dove rimane per diverso tempo come riserva. La vitamina K1 frena l’attività degli osteoclasti, le cellule che smobilitano il calcio dalle ossa, e di conseguenza facilita l’attività degli osteoblasti, quelle che lo depositano. Ma c’è di più: il microbiota intestinale trasforma (e se ce n’è molta -come nel caso degli spinaci- questo avviene più facilmente) la vitamina K1 nella vitamina K2 (appunto quella di origine batterica), che stimola la produzione di osteocalcina, la proteina che “incolla” il calcio sulla matrice ossea. Senza la vitamina K questa catena virtuosa avverrebbe con molti intoppi o non avverrebbe per nulla. Ecco perchè la vitamina K viene elencata sempre più spesso fra le sostanze amiche delle ossa. Ovviamente non è presente solo negli spinaci, ma l’esempio era interessante per capire quanto sia importante conoscere profondamente le cose prima di stilare le liste dei cibi buoni e di quelli cattivi. La vitamina K si trova abbondantemente anche in tutte le altre verdure a foglia verde, come biete, lattuga, crucifere, ecc., dunque un’alimentazione equilibrata e ricca di verdure non ce ne fa mancare di certo, com’era prevedibile.

LATTICINI. Mettiamo subito le cose in chiaro: sono indispensabili? No. Sono utili? Sì, sono molti utili perchè ci consentono di raggiungere i livelli di calcio necessari senza passare la giornata a ruminare foglie. E’ infatti vero che il calcio può essere assunto dai vegetali come facevano i nostri antenati che saltavano sugli alberi, ma come abbiamo visto, quanti ne servono? Una mucca può produrre ogni giorno molti litri di latte contenenti decine di grammi di calcio mangiando solo erba, ma passa la giornata a mangiare e digerire. Sicuri che potremmo farlo anche noi? L’allevamento è stato, con la coltivazione “intensiva” dei cereali, una spinta fortissima allo sviluppo della civiltà anche perchè aiutava ad impiegare meno tempo nell’accaparramento del cibo, e lasciava più tempo per pensare, oltre ad integrare efficacemente la dieta dopo la rivoluzione dell’agricoltura di 12000 anni fa. Gli Egizi e i Romani tentarono di allevare e mungere praticamente qualsiasi mammifero (come già detto, a Roma perfino le cagne), poi la rosa si restrinse per praticità e mansuetudine agli attuali bovini, capre e pecore, ma la raccolta e trasformazione del latte è tatuata, che lo si voglia o no, sulla pelle degli uomini che si sono evoluti in civiltà, soprattutto perchè, nelle loro diete, funzionava. L’evoluzione non tollera pratiche inutili o dannose, ed ecco perchè l’uso dei latticini è arrivato fino a noi. L’errore che si commette al giorno d’oggi è probabilmente il loro abuso, che sicuramente non va bene, mentre nel corso di questi millenni il loro utilizzo è stato sì continuo, ma moderato, come moderata e stata l’alimentazione in generale.

Chi non ha abbandonato questa filippica dopo la terza riga sappia che fra poco parleremo appunto di dosi, ma prima mettiamo sotto i riflettori quello che è probabilmente il vero responsabile dell’avversione che alcuni hanno verso i latticini: il lattosio. Distinguiamo subito fra l’allergia alle proteine del latte (peraltro piuttosto rara) e l’intolleranza al lattosio. Chi è “allergico al latte” deve tenere ben lontano da sè qualsiasi cosa contenga le proteine del latte (con le crisi e gli shock anafilattici non si scherza), ma gli “intolleranti” lo sono perchè il loro intestino, dopo i primi due-tre anni di età, ha smesso di produrre l’enzima (lattasi) che scinde il lattosio (maggioritario nel latte) nei due zuccheri semplici glucosio e galattosio. Se il lattosio rimane intero, lungo l’intestino fermenta ad opera dei batteri dell’ileo distale e del colon con produzione di gas, diarrea e dolore addominale, in maniera proporzionale alla quantità ingerita. Glucosio e galattosio separati, invece, non danno problemi. In parte della popolazione, invece, l’enzima lattasi non “esce di produzione” dopo il terzo anno di vita, ma viene prodotto per sempre. Come abbiamo visto è un adattamento legato all’adozione della pastorizia di circa 12000 anni fa, e infatti il fenomeno, noto come persistenza della lattasi, è più diffuso nelle etnie nelle quali l’allevamento e l’uso del latte sono stati più determinanti. Interessante notare che fino a qualche anno fa chi non proseguiva nella produzione della lattasi veniva definito affetto da “deficienza della lattasi”, mentre oggi, non essendo giustamente più considerata una mancanza, sono gli altri a essere definiti “lattasi-persistenti”. Alcune percentuali sulla persistenza della lattasi:

  • nordeuropei 85%
  • area del mediterraneo 60-70% (italiani compresi)
  • centro america 45-50%
  • africani 30%
  • indios nativi americani 30%
  • asiatici 10%

Da notare che la persistenza o meno della lattasi ha importanza più che altro per il consumo di latte, mentre nel resto dei latticini, dallo yogurt ai formaggi, la quantità di lattosio risulta drasticamente ridotta. Nel caso dello yogurt i fermenti lo digeriscono ricavandone acido lattico, e gli stessi batteri producono la lattasi che scinde anche gran parte di quello rimasto. Per i formaggi, il processo di cagliatura e stagionatura degrada il lattosio, che raggiunge il livello di tracce. Una quantità piccolissima di lattosio rimane sempre, ma così bassa da non generare fastidio negli intolleranti, che infatti di solito riescono a mangiare formaggi e yogurt senza problemi. Se non viene costantemente tenuta “attiva” con il consumo, la produzione di lattasi tende ad addormentarsi negli anni (se non serve, l’organismo non spreca risorse), dunque dopo un lungo periodo di mancata assunzione di latte un’eventuale ripresa dovrebbe essere graduale. La persistenza della lattasi comunque, facendo parte del patrimonio genetico, non si perde.

Riguardo le quantità, partiamo analizzando le condivisibili linee guida dell’INRAN: nell’ambito di un’alimentazione equilibrata consigliano (per gli adulti) 2-3 porzioni da 125 ml di latte/yogurt al giorno e, un giorno sì e uno no, una porzione da 100 gr di formaggio se fresco (mozzarella, crescenza, ecc.) o 50 se stagionato (emmental, caciotte, pecorini, parmigiano, …). Dunque in media 50 g se fresco e 25 g se stagionato al giorno. Consideriamo che i formaggi non sono altro che latte “condensato” per poter essere conservato più a lungo (l’inizio della loro produzione risale a millenni fa: era l’unico modo per conservarlo), e che la proporzione fra calcio, grassi e proteine si conserva durante questo processo di concentrazione (scende solo la quantità d’acqua e il peso finale del prodotto), dunque il tutto equivale a circa 600-700 ml di latte al giorno, con il quale si arrivano ad assumere circa 800 mg di calcio, guarda a caso il fabbisogno consigliato (attenzione: per i ragazzi e le donne post-menopausa le dosi consigliate sono ovviamente maggiori). Personalmente rimango un po’ più basso perchè conto di assumere calcio anche dal resto dell’alimentazione (quello vegetale, dunque, e dall’acqua) e dopo anni mi sono abituato a queste dosi: 700 ml di latte fresco intero a settimana (ne trovo ad esempio uno ottimo al Naturasì, pastorizzato e non omogeneizzato), che fanno circa 100 ml al giorno (ci sono giorni in cui ne prendo una tazza e magari salto i due successivi…) e poi durante il giorno uno yogurt (da 150 g) e a pranzo o a cena un cubetto di formaggio da 25-30 g se stagionato (per dare un’idea, delle dimensioni di quei panetti di lievito di birra da 25 g che si trovano nei negozi) o un po’ di più se freschi (una mozzarella ad esempio). Sulla pasta poi abbondo con il grana (un cucchiaio sono circa 10 g, non sembra ma apportano ben 110 mg di calcio), 2-3 volte la settimana. Dunque ogni giorno in media:

  • 100 ml di latte intero fresco (mezzo bicchiere, 120 mg di calcio)
  • 125-150 g di yogurt intero (un vasetto, 150-180 mg di calcio)
  • 25-30 g di formaggio se stagionato (con meno sale possibile) o 50 se fresco (300 mg di calcio)

per un totale di circa 600 mg di calcio da latticini, equivalenti a mezzo litro di latte, al giorno. Niente consumi smodati, dunque, ma una buona base per raggiungere la quota giornaliera di calcio consigliata. Poi c’è il calcio dalle verdure (a foglia e non, crucifere e non), dai legumi, dai semi oleosi, dall’acqua, ecc. “Senza saperlo” negli anni mi sono allineato più o meno alle linee guida…

Riguardo latte e latticini punto molto sulla qualità. Preferisco latte bio, anche se costa un po’ di più (poco di più in verità…) e per i formaggi, anche come gusto, prediligo quello di pecora e capra, ma vado matto per l’emmental (ci sono emmental bio tirolesi eccellenti) e il grana, ma sono gusti. La qualità dell’allevamento sembra comunque essere importante per la qualità finale del latte. Il latte biologico o biodinamico si avvicina di più al latte “antico” che il nostro sistema digerente conosce da circa 12000 anni. Sono anche stati fatti studi sull’impatto di tale migliore qualità sulla salute (a chi interessa, cercare Ton Baars – Univ. tedesca di Kassel -, uno dei massimi esperti in questo campo) ma sono ancora all’inizio. Il fatto comunque che i mangimi siano più di qualità, l’ambiente dove vivono sia più sano e naturale e soprattutto che le mucche in allevamento biologico o biodinamico forniscano circa 20 litri di latte al giorno contro i 40-50 del convenzionale fa comprendere le differenze che possono esserci. L’importante è non abusare nella quantità. L’equivalente in latticini di quei 500 ml di latte al giorno apportano più o meno 300 kcal, 16 g di proteine, 18 g di grassi (di cui saturi solo una decina), valori perfettamente incastrabili in una dieta bilanciata ricca di verdura e frutta e povera di carne. E’ sbagliato infatti fare confronti fra il latte (quasi tutta acqua) e i formaggi scandalizzandosi della quota di calorie e grassi: 100 g di latte e 100 g di formaggio sono due cose molto lontane fra di loro. I formaggi freschi concentrano il latte di circa 5 volte, quelli stagionati di 10 e più, dunque meglio ragionare in temini di latte-equivalente. Facile eccedere con i formaggi, molto meno con il latte. Va tenuto presente anche il parametro sale. Nei formaggi stagionati la concentrazione di sale aumenta parecchio, e come abbiamo visto va conteggiato il calcio che si perde a causa sua.

Insomma nella nostra zona mediterranea i latticini sono una buona base per assicurare un giusto apporto di calcio, checchè ne dicano i detrattori. Una delle tante review degli studi sui latticini e la salute delle ossa (8) riporta che gli unici studi solidi che davano effetti negativi (il 5% di quelli considerati) erano relativi alle fratture in tarda età e non avevano subìto aggiustamenti relativi al resto della dieta, ai livelli di vitamina D o all’attività fisica. Altre conclusioni interessanti che si ricavano da questa e da altre review sono che i latticini (il latte soprattutto) esercitano la loro massima influenza sulla salute delle ossa se consumati regolarmente da giovani (prima del picco di massa ossea): così facendo, in tarda età ci si ritrova con circa il 5-6% di massa ossea in più (sintesi di varie fonti).

CALCIO: POSSO ESAGERARE? No, ci sono due limiti da non superare: il primo è (per gli adulti) quello di 2500 mg di calcio al giorno (3000 per gli adolescenti): se si supera questa dose diversi rischi aumentano: i calcoli ai reni (per lo più se si beve poco), la calcificazione dei tessuti molli (fra cui, si teme, anche le arterie) e diversi tipi di cancro, fra cui quello alla prostata (il cui rischio sembra epidemiologicamente aumentare -di circa il 6%- dai 1500 mg in su: è il cavallo di battaglia degli anti-latticini, ma c’entra solo il calcio). Il secondo limite, ma molto più soft, è quello di evitare assunzioni superiori ai 500 mg in una sola volta, ma questo soprattutto per non sprecare parte del calcio ingerito, come abbiamo già visto.

Bisogna ammettere che 2500 mg sono difficili da raggiungere con un’alimentazione normale, ma può succedere facilmente con integrazioni prese alla leggera o alimenti fortificati. Riguardo i maschietti e il rischio-prostata: tranquilli, perchè il legame non è così diretto, in quanto sembra coinvolta anche la vitamina D, o meglio la sua mancanza. Il rischio deriverebbe da una concomitanza di eccesso di calcio (da qualunque fonte, alimentare o supplementi) e carenza di vitamina D, che si intrecciano dunque con sovralimentazione (con sovrappeso) e sedentarietà (con minore esposizione al sole), tutti fattori epidemiologicamente predisponenti e non si sa se e quanto scindibili l’uno dall’altro, di cui l’eccesso di calcio sembra essere solo uno dei tasselli.

Riguardo le mega dosi è noto il caso dei Masai, popolazione dedita alla pastorizia con introiti di calcio che raggiungono i 5000 mg al giorno, grazie anche al latte consumato in quantità, e che non ne ricavano alcun problema, ma con una grossa differenza rispetto allo stile di vita occidentale: l’attività fisica è imponente e l’irraggiamento solare pure. La loro è una situazione ideale, dunque non esageriamo con super-dosi di calcio, a meno che non abbiamo uno stile di vita come il loro! Come abbiamo capito fin qui, non sono importanti i singoli particolari ma il contesto generale, e in più è meglio preoccuparsi di non perderne troppo, piuttosto che assumerne tanto.

CONCLUSIONI. Lo scopo di questo lungo post era di far capire quale intreccio di variabili ci sia dietro la questione, solo apparentemente semplice, della salute delle nostre ossa, e anche di non far più sembrare misteriose le motivazioni dei vari “decaloghi” che vengono proposti per prevenire l’osteoporosi:

  • attività fisica
  • esposizione al sole e vita all’aria aperta
  • latticini in quantità moderata
  • verdure abbondanti, soprattutto a foglia verde
  • poca carne e attenzione alle diete iperproteiche
  • attenzione al troppo sale
  • acqua con un buon residuo fisso

Dunque da bambini e da ragazzi non dobbiamo farci mancare attività fisica, calcio, sole e aria aperta, da adulti dobbiamo assumere almeno le dosi consigliate di calcio e per renderle utili dobbiamo stare attenti a non perderne troppo con comportamenti sbagliati. Se abbiamo raggiunto da giovani un buon picco di massa ossea, eventuali piccole “mancanze” successive possono essere recuperate con uno stile di vita che porti ad un bilancio giornaliero del calcio positivo (le entrate sono maggiori delle uscite) così da tornare ad immagazzinare minerali nelle ossa. Il picco di massa ossea può essere recuperato e mantenuto.

Anche in questo caso uno stile di vita sano che comprenda una sana e varia alimentazione naturale di tipo mediterraneo (stile di vita che noi definiamo macrobiotica mediterranea) si dimostra un modello salutare, anche per costruire e mantenere in salute le nostre ossa per tutta la vita.

Riferimenti e altre fonti da cui partire, per chi vuole approfondire:

(1) L’affermazione “Senile osteoporosis is a pediatric disease” di Charles E. Dent (all’epoca professore all’University College di Londra) si ritrova per la prima volta in:
Keynote Address: Problems in Metabolic Bone Disease.
Proceedings of the International Symposium on Clinical Aspects of Metabolic Bone Disease. 1973;1-7.

(2) “Calcium and Milk: What’s Best for Your Bones and Health?”
Harvard School of Public Health

(3) Elena Segal, Lubov Dvorkin e altri
“Bone Density in Axial and Appendicular Skeleton in Patients with Lactose Intolerance: Influence of Calcium Intake and Vitamin D Status”
Journal of the American College of Nutrition, 2003

(4) Sean Murphy, Kay-Tee Khaw, Helen May, Juliet E. Compston
“Milk consumption and bone mineral density in middle aged and elderly women”
British Medical Journal, Volume 308, Aprile 1994

(5) Heidi J. Kalkwarf, Jane C. Khoury, and Bruce P. Lanphear
“Milk intake during childhood and adolescence, adult bone density, and osteoporotic fractures in US women”
American Journal of Clinical Nutrition, 2003

(6) Katherine L Tucker
“Does milk intake in childhood protect against later osteoporosis?”
American Journal of Clinical Nutrition, 2003, editoriale legato all’articolo (5)

(7) Ruth E. Black, Sheila M. Williams, Ianthe E. Jones, and Ailsa Goulding
“Children who avoid drinking cow milk have low dietary calcium intakes and poor bone health”
American Journal of Clinical Nutrition, 2002

(8) Roland Weinsier, Carlos Krumdieck
“Dairy foods and bone health: examination of the evidence” – A Rewiev
American Journal Of Clinical Nutrition, 2000; 72:681-9.

(9) Wayne W. Campbell, Minghua Tang
“Protein Intake, Weight Loss, and Bone Mineral Density in Postmenopausal Women”
The Journals of Gerontology, Series A: Medical Sciences, luglio 2010

(10) Marsh A.G., Sanchez T.V. e altri
“Cortical bone density of adult lacto-ovo-vegetarian and omnivorous women”
American Journal of Dietetic Association, 1980: 76: 148-151.

(11) International Osteoporosis Foundation
“The Asian Audit: Epidemiology, costs and burden of osteoporosis in Asia 2009”
www.iofbonehealth.org

(12) Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-WHO) & University of Sheffield Medical School
“Assessment of Osteoporosis at the primary health care level”, 2007

(13) Lega Italiana Osteoporosi – www.lios.it

(14) Connie M. Weaver, Karen L. Plawecki
“Dietary calcium: adequacy of a vegetarian diet”
American Journal of Clinical Nutrition, 1994;59(S):1238-1241

(15) Robert P. Heaney, Connie M. Weaver, Mary Lee Fitzsimmons
“Influence of calcium load on absorption fraction”
Journal of Bone and Mineral Research, 1990, Vol.5, pag.1135-1138.

(16) Committee to Review Dietary Reference Intakes for Vitamin D and Calcium, Food and Nutrition Board, Institute of Medicine.
“Dietary Reference Intakes for Calcium and Vitamin D” Washington, DC: National Academy Press, 2010.

(17) M. Maggio, G.P. Ceda
Dipartimento di Medicina Interna e Scienze Biomediche, Università di Parma
“Il dilemma dell’IGF-1”
Giornale di Gerontologia 2011;59:110-119

(18) Jasminka Z. Ilich, Jane E. Kerstetter, University of Connecticut
“Nutrition in Bone Health Revisited: A Story Beyond Calcium”
Journal of the American College of Nutrition, 2000, Vol. 19, No. 6, 715-737

(19) Léon Guéguen, Alain Pointillart
Laboratoire de Nutrition et Sécurité Alimentaire, INRA, Francia
“The Bioavailability of Dietary Calcium”
Journal of the American College of Nutrition, 2000, Vol. 19, No. 2, 119S-136S

(20) Annemieke M. Boot, Maria A.J. de Ridder, e altri
“Bone Mineral Density in Children and Adolescents: Relation to Puberty, Calcium Intake, and Physical Activity”
Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, 1997, 82: 57-62

(21) Robert P. Heaney
“Calcium, Dairy Products and Osteoporosis”
Journal of the American College of Nutrition, 2000, Vol. 19, No. 2, 83S-99S

(22) E. Lau, S. Donnan, D.J.P. Barker, C. Cooper
“Physical activity and calcium intake in fracture of the proximal femur in Hong Kong”
British Medical Journal, dicembre 1988

(23) Lucia Baciottini, Annalisa Tanini e altri
“Calcium bioavailability from a calcium-rich mineral water, with some observations on method”
Journal of Clinical Gastroenterology, Ottobre 2004 – Volume 38 – Issue 9 – pp 761-766

(24) Robert. P. Heaney, M.S. Dowell
“Absorbability of the calcium in a high-calcium mineral water”
Osteoporosis International, 1994, Volume 4, Number 6, pp 323-324

(25) Robert P. Heaney, Connie M. Weaver
“Newer perspectives on calcium nutrition and bone quality”
Journal of the American College of Nutrition, 2005, Vol. 24, No. 6, 574S-581S

(26) Lindsay H. Allen
“Calcium bioavailability and absorption: a review”
American Journal of Clinical Nutrition 35: aprile 1982, pp. 783-808

(27) V. Matkovic, K. Kostial e altri
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American Journal of Clinical Nutrition l979; 92:953-963.

(28) Merja Kärkkäinen, Christel Lamberg-Allardt e altri
“Does it make a difference how and when you take your calcium? The acute effects of calcium on calcium and bone metabolism”
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(29) – López-González AA, Grases F, Roca P, Mari B, Vicente-Herrero MT, Costa-Bauzá A.
“Phytate (myo-inositol hexaphosphate) and risk factors for osteoporosis.”
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(30) – S. Abbott, E. Trinkaus, DB Burr
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 (31) – Holmes, Pollack, Willett, e altri
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(32) – T. Norat, L. Dossus, S. Rinaldi, e altri
“Diet, serum insulinlike growth factor-I and IGF-binding protein-3 in European women”
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(33) – J. Ma, E. Giovannucci, M. Pollak, e altri
“Milk intake, circulating levels of insulin-like growth factor-I, and risk of colorectal cancer in men”
Journal of the National Cancer Institute, settembre 2001;93(17):1330-1336.

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