No, non mi sono sbagliato, ho scritto proprio agnoressia, con la “g”. Una parola che ho inventato tempo fa e che significa “mangiare senza informarsi”. E siccome c’è chi questa disinformazione la incoraggia ci vuole… la food guerrilla.
Sono passati più di dieci anni da quando, grazie ad un agile saggio di una giornalista americana (1), venni a conoscenza di un’usanza tristemente diffusa nella classe lavorativa medio-bassa di laggiù: sapendo che per affrontare la faticosa (e in genere sottopagata) giornata sarebbero servite 1.000/1.500 Kcal, la scelta per la pausa pranzo cadeva sui cibi industriali a più basso costo e più alta energia. Era dunque frequente vedere addetti alle pulizie o manovali sfamarsi con un grosso sacchetto di patatine, che la fornivano ad un costo irrisorio. Paradossalmente era pure una scelta meditata, fatta leggendo con cura le tabelline nutrizionali sulle confezioni e influenzata da quello su cui battevano marketing e informazione di quel periodo: le calorie.
Dalla tristezza di dieci anni fa mi sono reso conto di essere passato, piano piano, ad una sensazione diversa, più simile ad un’irritazione, all’apice della quale mi sono per l’appunto svegliato stamattina. Sono reduce, lo ammetto, da una lunga serie di serate passate a leggere articoli, post e ricerche su alimentazione e stili di vita, e già questo non aiuta il sonno, come una sorta di peperonata mediatica. Il fatto è che ultimamente li trovo sempre più costretti nel politicamente corretto, frenati dal dover tacere o non dire troppo per non scatenare le ire pseudo-legali dell’industrialotto, della lobby o del nutrizionista perfettino di turno, e mi pare che la faccenda stia diventando troppo vischiosa. Non so se avete seguito le vicende della sacrosanta petizione de Il Fatto Alimentare per chiedere di togliere dalle casse dei supermercati snack e dolciumi: dopo pochi giorni è già arrivata la lettera di protesta dei produttori. Che sensazione di mancanza d’aria… sempre, sempre qualcuno a cui la cosa “non sta bene”. E giusto qualche tempo fa avevo visto in TV un’inchiesta sui pranzi, portati da casa, degli scolari americani: una bambina aveva per pranzo una mega crocchetta fritta di pollo, una gelatina di colore blu a forma di budino (come nella foto in alto) e, come dolce, mezzo pacchetto di caramelle! Mezzo pacchetto perché con uno intero le calorie (calcolate con precisione dalla mamma) sarebbero state troppe! Prima di perdere i sensi ho sentito mia moglie dire a mio figlio “prendi un defibrillatore, e carica a 200”… e poi che cibo sono quelle gelatine ballonzolanti e colorate che mangiano quei poveri bambini americani? Ma gli insegnanti non possono aprire bocca: la normativa sancisce che il pranzo preparato dai genitori è intoccabile, e soprattutto sono tutti cibi legali.
Ho poi realizzato, cercando di capire l’origine dell’irrequietezza mattutina, che questo cerchio lungo dieci anni si è idealmente chiuso nel mio inconscio giusto ieri, in pausa pranzo, quando passando al supermercato ho visto un’addetta alle pulizie pranzare con un grosso sacchetto di patatine. Sul momento non ci ho fatto caso più di tanto, ma durante il sonno nel mio cervello tutta una serie di pensieri si devono essere ricollegati fra loro, e complici la peperonata mediatica e un paio di incubi sulla sopravvalutata “crisi” scatenati da qualche telegiornale, mi sono alzato come Hulk con la voglia di spianare tutto con una ruspa per ricostruire da zero.
Agnoressia. Tutti questi episodi, dai sacchettoni di patatine ai cestini del pranzo dei bambini americani, sono infatti emblematici del rapporto che c’è oggi fra industria del cibo, informazione e consumatori, un rapporto perverso che ha generato un modo di mangiare da me battezzato agnoressia, cioè nutrirsi con disinformazione e ignoranza (a-gnosi). Lontana mille miglia dalle folli astinenze dell’anoressia e dagli isterismi quasi comici dell’ortoressia, l’agnoressia sembra ormai guidare l’alimentazione e il modo di procurarsi il cibo della maggioranza di noi, è la totale anarchia alimentare con tre attori, che in una situazione di continua tensione si guardano in cagnesco: consumatori, industria e mezzi di informazione. Ed è questa sensazione di stallo che mi fa diventare verde: di fatto alla fine la giusta informazione non arriva.
L’agnoressia si basa su due princìpi relativi al cibo, sbagliatissimi, nei quali il consumatore medio è portato a credere:
- se lo vendono nei negozi non può far male
- se lo posso mangiare allora mi ci posso nutrire fino a sazietà
dimenticando che commestibile non vuol dire sano, e disponibile non vuol dire che ne posso mangiare fin che ce n’è. E vi assicuro che conosco fin troppe persone che mangiano e fanno la spesa seguendo queste due regole. Ma tutte quelle belle trasmissioni televisive sull’alimentazione, le campagne scolastiche sulla frutta e la verdura, i blog naturali? Non gliene importa niente a nessuno. Ho letto un paio di inchieste: le campagne nelle scuole alla fine hanno scarso successo, e per il resto si è portati a pensare che informarsi sia “faticoso”. Dove lo trovo poi il tempo fra shopping, palestra, aperitivo, videogiochi e TV, tutte attività che devo assolutamente fare? Volete forse che perda il sonno per leggere quelle cose complicatissime su verdura, polifenoli e cereali integrali? Poi al supermercato è tutto così comodo, già pronto… e c’è chi controlla che sia tutto in regola, no?
Dall’altra parte le aziende si basano su questi due, di princìpi:
- se un ingrediente non è vietato lo posso usare
- se quello che produco non è tossico lo posso vendere
con la terza regola, aggiunta sottovoce:
- se lo posso vendere non osare criticarlo o ti faccio passare seri guai
E vi assicuro, non sono uno di quelli che ce l’ha per partito preso con l’industria alimentare, anzi. Il problema è solo uno: ancora troppo spesso (ma non sempre, siamo onesti, ci sono anche ottimi prodotti) il cibo che si produce non è cibo vero o è di una qualità orripilante. In pratica, se già il prodotto non ha un vero scopo nutrizionale o non è salutare, azzuffarsi sul fatto che sia o meno legale venderlo è una discussione che non dovrebbe neanche iniziare. Un cibo vero d’altra parte non avrà mai bisogno di essere difeso, men che meno nei tribunali. Una linea produttiva che confeziona caramelle gommose al gusto puffo non dovrebbe neanche essere progettata, capite? Ma non per un divieto, anzi: libertà totale di aprire fabbriche che producono estrusi multicolore di grasso e zucchero, o crocchette semi-sintetiche da aperitivo al gusto di quaglia, il fatto è che non dovrebbe essere conveniente progettarle perché in un mondo ben informato non dovrebbero avere il minimo mercato. L’industria dovrebbe investire su tecniche sane di conservazione delle derrate e sul cibo vero, altro che aggregati di amidi di patata al gusto barbeque.
E dunque arriviamo alla vera causa dell’agnoressia: l’informazione, o meglio la sua mancanza. Ma non perché non ce ne sia, anzi ce n’è troppa, eccessivamente frammentata e scoordinata, tanto che si dice tutto e il contrario di tutto. E troppa informazione è inutile ed equivale a nessuna informazione. Se ci pensate, è una situazione simile alla nostra attuale politica: un inverecondo pollaio. Un eccesso di stimoli che porta il consumatore ad una sorta di stordimento da eccesso di dati, nel quale si finisce, sfiniti, per dare retta a chi urla più forte, cioè a chi vi può investire più denaro. Con l’aggravante che molta informazione non è neanche del tutto libera: terrorizzata da eserciti di avvocati aziendali pronti a perseguitare chiunque osi dire che un prodotto industriale, in regola con le “vigenti norme”, sia anche solo sospettato di fare male (anche se ci sono decine di studi scientifici che lo sostengono), o soggetta al ricatto delle commesse pubblicitarie. Ammettiamolo: un’informazione fumosa e contraddittoria fa comodo a chi vuole mettere sul mercato cibi di scarsa qualità, magari cavalcando mode appositamente costruite attingendo con furbizia dalle ricerche scientifiche. Fa comodo anche a certi media, che possono fare notizia sui presunti continui tira e molla della scienza (cosa dovuta a pessima capacità di interpretare i risultati delle ricerche), le cui scoperte, chissà perché, alla fine arrivano ai consumatori deviate, insabbiate, manipolate, spesso nell’ottica di non danneggiare ora questa categoria di aziende, ora quest’altra, o di favorirle.
In fondo l’agnoressia non è neanche un problema di normativa, anzi la normativa ne è una conseguenza, perché in una democrazia le regole le fa la maggioranza (i consumatori) tramite i suoi rappresentanti. Ma basta leggere le circolari CEE (vedi l’annosa e vergognosa odissea delle etichette) per capire che anche quei nostri rappresentanti sono palesemente agnoressici. Un legislatore ben informato farebbe buone leggi, anche se pressato dalle lobby. Dunque il problema dell’informazione, a questo punto oserei dire della cultura, sembra proprio essere alla base di tutto.
Insomma, uno tira di qua, l’altro tira di là e, come cantava Battisti, siamo all’impasse. Ormai degenerata, per di più, e va risolta sbloccando la situazione. Occorre spazzare via lo stordimento mediatico informandoci meglio e attivando di conseguenza una vivace quanto efficace food guerrilla.
Informarsi meglio. L’informazione va rivista da capo e semplificata, mettendo da parte tutto ciò che è paccottiglia mediatica e attingendo direttamente dalla fonte, la scienza. Senza intermediari influenzabili da vari interessi (diffidiamo di chi vuole informarci e poi venderci qualcosa, sia essa un cibo, una rivista, una consulenza o un libro). E non dobbiamo farci spaventare perché sembra complicata, inafferrabile e inarrivabile ai più: non è così. Niente è troppo complicato se si comincia dalle basi. Guardiamo come ci siamo evoluti: se sappiamo che l’uomo si può cibare, rimanendo in perfetta salute, di cereali integrali, verdure, legumi, frutta e poche altre categorie di alimenti come ha imparato a fare in decine di migliaia di anni, possiamo partire da queste semplici basi e valutare scientificamente e con calma quali miglioramenti tecnologici e industriali possano essere utili (conservazione delle derrate, valorizzazione dei nutrienti) e quali totalmente inutili (cibi finti). Si può fare. Siccome è assurdo filosofeggiare sui dettagli dell’affresco quando bisogna ancora ricostruire la parete, cominciamo dalle cose semplici, i cibi veri e tradizionali, e anche la dieta si semplificherà. Non facciamoci più stordire dalla Babele di informazioni che troviamo sui vari mezzi di informazione (diete assurde, cibi complicatissimi, opinioni ridicole e non dimostrabili), perché la cortina fumogena fa comodo anche a chi vuole che rimaniamo fermi. Non facciamoci sviare dalle pubblicità ammiccanti, dalle campagne di informazione volutamente superficiali, dalle sonore (e dolorose) pacche sulle spalle con sorrisino di sufficienza agli “eccentrici” che osano obiettare qualcosa. Andiamo al sodo. Basta opinioni, fronzoli e minuetti, solo scienza, quella vera.
Food guerrilla. Una volta che siamo certi di essere correttamente informati, saltiamo a piè pari ritorsioni, reazioni, resistenze, minacce e norme farraginose con una sana e inarrestabile food guerrilla: con passaparola, SMS, tweet, segnali di fumo, scritte sulle magliette. Un produttore non vuole smettere di vendere una bibita poco sana facendo l’equilibrista fra normative che andrebbero cambiate? Non si compra più la bibita. Un’azienda pesta i piedi e non vuole dire quali grassi usa nei biscotti? Quei biscotti eliminati dalla lista della spesa. I supermercati non tolgono dalle casse le caramelle? Mai più caramelle nel carrello. Un intero studio legale sbraita che non si deve dire che quello snack fa male? Benissimo, fa benissimo, ma non lo compriamo più. La parola d’ordine deve essere: non lo compriamo più.
Una volta dotati di un’informazione consapevole, saranno i consumatori (la maggioranza) a pilotare in maniera naturale il mercato con i loro acquisti, non la minoranza dei produttori. Ci riapproprieremo dei nostri diritti, perché noi siamo di più e siamo quelli che pagano. E sconfiggeremo l’agnoressia, da chiunque sia causata. Mai più patatine per pranzo, anche se c’è crisi.
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(1) Barbara Ehrenreich, “Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo”, Feltrinelli, 2002
Sono totalmente d’accordo con quanto sostieni, non solo per quanto riguarda il cibo. io credo che le normative e i tribunali vengano dopo, prima bisogna cambiare il proprio stile di vita, possibilmente contagiando chi ci sta vicino con la forza dell’esempio
By: manuelcolombo on 16 giugno 2014
at 07:21
Grazie!
Ciao.
By: pades on 16 giugno 2014
at 10:55
Articolo veramente centrato…
By: Angela on 24 giugno 2014
at 15:12