Secondo la CEE sono sempre più una questione di salute pubblica: ma avremo veramente armi più affilate contro i furbetti dell’etichetta?
Leggere le etichette alimentari è sempre stata per me fonte di grande divertimento, e diciamoci la verità: in questi anni fra etichette e confezioni potevamo passare dal comico al tragico nel breve tragitto che va dallo scaffale della pasta a quello dei biscotti. Ma ora la Comunità Europea si è accorta che non è più roba da cabaret: molti problemi di salute pubblica derivanti da un’alimentazione sbagliata possono essere indotti anche da etichette troppo superficiali e “furbe”, e la cosa si è fatta seria. E così il pachidermico apparato si è messo in moto per mettere in riga i produttori e aiutare i consumatori a combattere obesità, cardiopatie, dislipidemìe e diabete per mezzo di etichette oneste, chiare e complete. Almeno, sulla carta, questo si aspettano.
La nuova normativa, in vigore ormai da quasi un anno ma non ancora vincolante (1), si è dovuta gioco forza integrare ai regolamenti europei già esistenti (fin troppo contorti già di loro) e a sopraggiunti tentativi di salvaguardie territoriali (come il made in Italy o il made in France, che su alimentazione e prodotti tipici vogliono fare da locomotive), senza contare la forte resistenza della grande industria alimentare che ha fatto di tutto per arginare le richieste delle associazioni dei consumatori. Risultato: un regolamento bizantino nel quale, pur avendolo letto, non mi sogno neanche di addentrarmi (anche gli esperti traballano di fronte a certi astrusi commi e distinguo), ma che fornisce qualche spunto utile a chi si avvicina o pratica l’alimentazione naturale e frequenta gli scaffali dei supermercati, o semplicemente a chi vuole conoscere tutto circa quello che sta per mangiare o che sta per dare ai propri bambini.
Leviamoci subito il sassolino dalla scarpa, così non ci pensiamo più: le grandi industrie alimentari, nel perenne tentativo di produrre al costo minimo e dunque con procedimenti ed ingredienti al limite del consentito (pur nella totale legalità), hanno sempre cercato di far trapelare il meno possibile dalle etichette (e spesso anche nascondere), facendo invece gli splendidi e promettendo la Luna nei vari richiami colorati stampati sul lato bello delle confezioni (a proposito: i “claims salutististici” del tipo “fa bene alla pelle” o “migliora la vista” non saranno più consentiti). In questi tempi di economia di mercato molto aggressiva moltissime aziende alimentari sono restate a galla solo riducendo al minimissimo i costi e vendendo al massimo prezzo che il meccanismo di domanda-offerta-concorrenza consentiva, e nel fare questo le etichette “nebulose” sono state un aiuto determinante.
L’etichetta ha sempre rappresentato la finestrella dalla quale i consumatori tentavano di guardare dentro l’azienda che produceva quello che mangiavano, mentre dall’interno il produttore faceva di tutto per rimpicciolire la finestra e rendere il vetro il più opaco possibile. Anche il legislatore ci ha messo del suo: fino a qualche anno fa la Comunità Europea aveva accampato le scuse più strampalate per non rendere le etichette più chiare: dal dover difendere il diritto di qualsiasi azienda europea di produrre ciò che voleva senza rischiare “ingiuste discriminazioni territoriali” (così ci trovavamo le mozzarelle di bufala prodotte in Germania, i bucatini norvegesi o il grana bulgaro) fino a insinuare che il consumatore medio non fosse culturalmente pronto per capire se fosse meglio un biscotto prodotto con l’olio di oliva o con quello di palma, e dunque meglio non farglielo sapere per niente, “per non discriminare le aziende”. Che hanno sempre prodotto nella legalità, ripetiamo, ma quasi sempre secondo criteri di puro contenimento dei costi e massimizzazione della marginalità, come dicono gli addetti ai lavori, spendere il minimo e guadagnare il massimo come diremmo noi. Cosa che è nella loro “natura” (a volte la parole sono così ironiche), è vero, ma anche oltreoceano Michael Pollan (celebre per le famose regole di evitare cibi con più di tre/cinque ingredienti e qualsiasi cosa che la nostra bisnonna non avrebbe considerato un alimento) sostiene che molte industrie alimentari non avrebbero mai potuto prosperare se non fosse per la profonda ignoranza da parte di noi consumatori circa ingredienti e processi produttivi, abilmente mascherati anche grazie all’aiuto di fumose etichette (2). E Pollan è ancora più chiaro: la moderna industria alimentare non resisterebbe un giorno se il consumatore non ignorasse, come succede oggi, molte cose.
E’ proprio qui che viene fuori il punto centrale della vicenda, che è il bisogno di una diffusa e profonda cultura alimentare, che parta dalla scuola fino ad arrivare a linee guida diffuse al pubblico veramente obiettive e indipendenti (dall’industria) e che fornisca i mezzi per poter anche capire, davanti ad una etichetta (che dev’essere completa, e qui entra in gioco la normativa), se ci troviamo davanti a un’azienda seria che produce alimenti con passione o a un furbacchione, e soprattutto a capire se ci può fare bene o male. Con questa normativa si è partiti un po’ dal fondo, ma per il momento accontentiamoci.
Comunque, per farla breve, fra le tante novità alcune ci interessano:
- Finalmente non sarà più possibile citare fantomatici “grassi vegetali“: sarà obbligatorio elencare di che tipo di grasso si tratta (olio di palma, di cocco, di colza, di oliva, di girasole, ecc.). Questa è una delle novità più utili: le industrie non possono sfuggire e infatti molte si stanno attrezzando per modificare i grassi utilizzati, prima di essere costrette a rivelare cosa hanno usato finora. Rimane l’obbligo di citare se siano idrogenati o meno.
- La precisione sull’origine non è invece obbligatoria per i grassi animali, chissà perchè: sapere se c’è burro o strutto potrebbe interessare più di una persona, ad esempio i vegetariani. Decade l’obbligo, ma anche la possibilità, di indicare la quota di colesterolo (chissà perchè).
- Entro tre anni si deciderà se rendere obbligatorio indicare la precisa provenienza degli alimenti mono-ingrediente (come il latte), degli ingredienti utilizzati in percentuale maggiore del 50% (pensiamo al grano per la pasta), dei prodotti non trasformati (cereali in chicco, legumi, ecc.). Perchè decidere fra tre anni (dunque non è neanche detto che si farà…)? E chi lo sa? Si spera forse, nel frattempo, di ammorbidire le resistenze delle industrie di trasformazione, che stanno già pestando i piedi? Domanda spontanea: e cosa avranno mai da nascondere? Pratiche un po’ troppo bizzarre di import-export?
- Obbligo di indicare l’origine delle carni suine, ovine, caprine, avicole. Come tutti sappiamo l’obbligo c’era già per le carni bovine, dopo “mucca pazza”. I più attenti fanno notare che negli elenchi dettagliati sono stati “dimenticati” i conigli e le quaglie. A noi la carne interessa poco o niente, ma è bene sapere anche questo.
- Grassi trans: non sarà obbligatorio dire se ci sono, ma attenzione, non si potrà dire neanche che NON ci sono. Non andranno nemmeno citati. Mistero. Probabilmente le (poche) multinazionali che li producono sono riuscite a fare un po’ più di pressione, per il momento: la CEE si riserva di ripensarci fra tre anni (!) a seconda dei risultati di un futuro rapporto (su cosa? Come se sui grassi trans non se ne sapesse già abbastanza: è una delle poche cose su cui sono d’accordo tutti i nutrizionisti, cosa rara). Fra l’altro negli USA, ed è tutto detto, l’indicazione è già obbligatoria, dunque le aziende europee che vendono anche nel mercato nordamericano dovranno stilare due diverse etichette!
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Le tabelle nutrizionali, come quella qui a fianco, saranno obbligatorie. E’ forse la novità più importante. Sono dette in gergo (soprattutto in nordamerica) “BIG 4” (se contenenti quattro indicazioni: Kcal, proteine, carbo e grassi – insufficienti però per la nostra nuova normativa) e “BIG 8” (Kcal, proteine, carbo, di cui zuccheri, grassi, di cui saturi, fibra, sodio). In quelle europee le fibre non saranno obbligatorie, dunque si potrà parlare di “BIG 7”, anche se praticamente tutti le elencheranno e il “BIG 8” sarà la norma. Dovrebbero far capire a colpo d’occhio se il prodotto in vendita sia paragonabile ad un’arma letale per il nostro cuore o se un’intera piantagione di barbabietole da zucchero sia finita nel pacchetto. Fra l’altro dovrebbe finalmente smascherare il puerile trucchetto di dividere un ingrediente “scomodo” in sue “sottofamiglie” per farlo scivolare in fondo alla lista degli ingredienti e farlo apparire meno invadente. Usato tipicamente per “diluire” i dolcificanti nei prodotti da forno: un elenco del tipo farina, grasso vegetale, uova, zucchero, sciroppo di glucosio, malto di mais, fruttosio, miele è un trucchetto da giocolieri per mascherare il fatto che la somma degli zuccheri finirebbe senza dubbio al primo posto della lista, con grande disappunto dell’ufficio marketing dell’azienda produttrice e del nostro pancreas, mentre visti così danno l’impressione di essere usati in dosi omeopatiche, e in più sulla confezione ci sarà sicuramente scritto “al miele”… Ma anche qui la furberia è dietro l’angolo: sono stati esentati dall’obbligo della tabella nutrizionale gli alimenti cosidetti “preincartati“, ossia quelli che ad esempio i supermercati prelevano da confezioni più grandi e vendono porzionati o sfusi in vaschette. Se vedete che il reparto del “fresco e preincartato” del supermercato che frequentate aumenta di dimensioni nei prossimi mesi, potrebbe mascherare un simile tentativo di eliminare silenziosamente tabelle nutrizionali poco rassicuranti, dunque facciamo attenzione.
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Saranno consentite (ma non obbligatorie) le cosidette “GDA” (Guideline Daily Amount), come quella a fianco, che potranno indicare calorie, carbo, zuccheri, grassi per porzione e in relazione ai fabbisogni giornalieri. Secondo la ratio della normativa le “GDA” dovrebbero essere utili per capire al volo se l’alimento in questione sia una bomba o no. In pratica, però, il trucchetto è quello di indicare porzioni adatte al sostentamento di un criceto più che di un uomo. In più già si assiste al divertente fenomeno delle “porzioni oscillanti”: lo stesso prodotto con porzioni diverse a seconda delle confezioni, come nella bibita qui sotto (notare che la parola “porzione” non viene mai usata): nel caso della lattina da 500 ml la “porzione” è di 250 ml, mentre nella lattina da 330 ml (la classica) le GDA sono relative all’intera lattina (la porzione da 250 ml è sparita). Dunque nella lattina grande gli zuccheri sembrano la metà di quelli effettivamente ingeriti: avete infatti mai visto un ragazzino iniziare una lattina da 500 ml (in ristoranti, pizzerie e mense è il formato quasi standard) e fermarsi per paura di superare la porzione consigliata? Nel caso della lattina grande bevuta per intero la dose di zuccheri semplici arriva in realtà quasi al 60% della dose giornaliera: con una sola lattina ci si gioca la quantità di zuccheri di quasi tutta la giornata (frutta addio), con l’aggravante di assumerli tutti in una volta (e la glicemia vola). Dunque non tutte le GDA sono indicative di quanto si stia veramente mangiando: attenzione.
Se siete arrivati fin qui vi siete meritati la spiegazione del titolo: Premio Etichetta del Mese. Ho pensato di pubblicare di volta in volta le varie etichette che ho raccolto e raccolgo durante i miei giri per mercati e scaffali, sia nel bene (ottimi prodotti) che nel male (intrugli di pessimi ingredienti), con il perchè abbiano scatenato il mio interesse e i pensieri che mi hanno evocato. Insieme a questo numero zero viene pubblicato a ruota il numero uno, con la prima etichetta. Una nota scontata: nel caso degli intrugli non farò nomi: non voglio noie dai soliti rompiscatole. Ma con un po’ di esperienza da supermercato le etichette saranno facilmente individuabili…
(1) E’ in vigore da novembre 2011, e le aziende hanno tre anni di tempo per adeguarsi. Motivo dei tre anni: ci sono alimenti a lunga scadenza, e inoltre consentire alle aziende di far fuori imballaggi e confezioni ormai stampati. Motivo più prettamente aziendale: permettere ai produttori di rivedere quei cicli produttivi che con le nuove etichette evidenzierebbero una scarsa attenzione alla qualità.
(2) I libri di Michael Pollan sono immancabili nella libreria di chi si interessa di alimentazione. Questa considerazione su etichette e industrie è tratta da “Il dilemma dell’onnivoro”, ediz. italiana di Adelphi (2008), pag. 264.
(3) Come cameo finale per questo “numero zero” dell’etichetta del mese, un caso che non c’entra niente con la qualità dei prodotti ma molto con la superficialità e l’ottusità del “sistema burocrazia”: sicuramente avrete notato sulle etichette di molte acque minerali (di solito accanto al disegno di un bel faccino di bambino, vedi esempi qui sotto) la celeberrima frase “L’allattamento al seno è da preferire, nei casi ove ciò non sia possibile, questa acqua minerale è indicata per la preparazione degli alimenti dei neonati”. La punteggiatura, se di punteggiatura si può parlare, è proprio quella. Ne esce una frase grammaticalmente orrenda. Ma perchè tutte, ma prorio tutte le aziende che la riportano in etichetta la declinano esattamente nello stesso insensato modo, senza alcuna eccezione, senza ad esempio il tentativo di sostituire la prima virgola con un determinante punto? Per avere la risposta, o farsi venire almeno un forte sospetto, basta un giro per i motori di ricerca, ma ve la riassumo volentieri io: quando un’azienda che imbottiglia vuole far sapere al consumatore che la propria acqua è adatta a preparare alimenti per i neonati (latte sostitutivo, prime pappe, ecc.) non può ovviamente scriverlo e basta (e va più che bene), ma deve chiedere al Ministero della Salute un’apposita autorizzazione scritta, che di anno in anno, di richiesta in richiesta, è probabilmente stata concessa copiando, incollando e spedendo ai richiedenti sempre la stessa traccia con l’orribile dicitura, intimando fra l’altro di mettere in etichetta proprio quella e solo quella frase, pena l’illegalità. E per “non correre rischi”, ecco che quasi tutte le acque minerali italiane si ritrovano con l’orrenda punteggiatura. Mai nessuna azienda ha tentato di trattare con il Ministero una modifica della strampalata frase? Mai nessuno al Ministero ha riletto il modello prima di spedirlo, visto che l’autorizzazione è stata concessa centinaia di volte? Ai posteri, o a qualcuno con più pazienza di me, l’ardua risposta.
aggiunto ai miei preferiti… cercherò di imparare qualcosa.. grazie della condivisione
Linda
By: Linda on 16 giugno 2013
at 21:43
Grazie per la condivisione delle tue idee. Dato che si parla di “etichetta del mese”, cosa ne pensi dell’Etichetta Trasparente Pianesiana? grazie ancora. RB
By: ricardinho2905 on 20 giugno 2013
at 12:01
Ne ho viste alcune: non si può dire che non siano dettagliate!
By: pades on 20 giugno 2013
at 21:59