Pubblicato da: pades | 20 settembre 2009

Sinergie alimentari e ricerca

Ricerca

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Nel post sulle noci fresche avevamo evidenziato l’interessante storia di un percorso di ricerca: per spiegare il paradosso delle noci (molto grasse ma cardio-protettive) i ricercatori erano partiti studiando singole sostanze presenti nell’alimento (arginina, tocoferolo, acidi grassi essenziali,…) ma senza arrivare a risultati convincenti: di ogni sostanza ne sarebbero servite dosi troppo elevate. La conclusione era arrivata da uno studio spagnolo, poi pubblicato da una rivista statunitense di cardiologia, che basò la ricerca sugli effetti che ha l’intera noce, con tutte le sue centinaia di composti chimici (molti dei quali poco studiati e dai meccanismi bioattivi ancora poco conosciuti), su cuore e vasi sanguigni, propendendo alla fine per una singolare sinergia fra di essi, superiore alla somma degli effetti delle singole sostanze.

Un errore molto comune delle ricerche degli anni passati, infatti, è stato quello di voler a tutti i costi studiare gli effetti di una o poche sostanze, estratte da alimenti che da secoli di esperienza erano risultati protettivi, senza spesso considerare il contesto delle diete di provenienza (l’intero alimento e gli altri alimenti eventualmente presenti). Queste metodiche avevano ad esempio portato, anni fa, al boom del betacarotene, poi rivelatosi cancerogeno se isolato, o alla somministrazione di dosi troppo elevate di vitamina A (che in questo caso è epatotossica, cioè nociva per il fegato), e di esempi ce ne sono tanti, tutti accomunati dal fatto che una sola sostanza isolata e in dosi massicce, anche se ritenuta valida, se va bene è inutile, se va male genera una squilibrio organico poichè il nostro organismo non la conosce in quelle proporzioni, ma in una rete di sinergie alimentari alla quale si è abituato da millenni e che ha imparato a sfruttare.

E’ ormai risaputo, ad esempio, che i legumi possono sostituire egregiamente la carne, ma sarebbe un grave errore pensare che le proteine fornite dai legumi siano sufficienti, in quanto vanno integrate con quelle dei cereali integrali per avere tutti gli aminoacidi necessari.
Ebbene, una ricerca che venisse svolta sulle sole proteine dei legumi ne decreterebbe ingiustamente l’insufficienza, pur continuando a osservare che le popolazioni che basano (e hanno basato per secoli) l’alimentazione su cereali integrali e legumi non hanno certamente carenze proteiche.
Un altro esempio: gli agrumi fanno sicuramente bene, come alcalinizzanti e antiossidanti, ma hanno un’altra qualità nascosta: se consumati insieme ai legumi (a fine pasto ad esempio) aumentano di molto la biodisponibilità del ferro, già presente nei legumi in quantità maggiori rispetto alla carne, ma meno assimilabile. Il maggior assorbimento avviene grazie all’acido citrico e alla vitamina C, che con i legumi offrono al nostro organismo una sinergia difficilmente riscontrabile studiando separatamente agrumi e legumi. Ricerche su queste due sinergie sono ovviamente poi state fatte, ed è grazie ai risultati di simili studi che fortunatamente ora i ricercatori stanno tentando di modificare e migliorare le metodiche di analisi, grazie anche al fatto che, essendo molto aumentato il numero di studi che vengono svolti, è stata più diluita la pressione delle case farmaceutiche, le quali notoriamente finanziano solo ricerche concentrate su una o poche sostanze per rendere poi tecnologicamente più facile la produzione di farmaci o integratori.
Si diffondono sempre più, infatti, studi su interi alimenti o gruppi di alimenti (non più solo a scopi farmaceutici dunque, anche se si spera sempre di isolare i principi attivi), con l’effetto che si producono interessanti dati statistici sugli effetti di vari alimenti su vaste popolazioni e per lunghi periodi.
D’altra parte ricerche su pool di sostanze o addirittura interi alimenti non sono facili, poichè le probabili combinazioni fra di loro e con altri cibi e le modulazioni nelle quantità generano troppe variabili per le metodiche di ricerca utilizzate finora. Forse in futuro, migliorando i metodi di analisi e con l’ausilio di computer sempre più veloci, sarà possibile analizzare più facilmente gruppi di sostanze, le sinergie fra di esse e soprattutto applicate a basi di dati statististiche molto più estese, arrivando così a conclusioni più precise. Ad esempio tenendo conto della globalità della dieta dei soggetti esaminati e non solo del fatto che consumino o meno uno specifico alimento, e anche dello stile di vita. Già adesso come abbiamo visto è possibile e si comincia a fare, anche se le ricerche sono ancora molto più lunghe e costose, ma almeno mettono al riparo dal trarre conclusioni poco reali. Ad esempio negli anni passati alcuni studi avevano messo in relazione il grande consumo di latticini nei paesi nordeuropei con una maggiore incidenza di osteoporosi, senza tenere conto del resto della dieta (quante proteine animali assumono, quali altri grassi saturi, quante calorie, quanti zuccheri semplici, quanti cereali raffinati?) e dello stile di vita (sovrappeso, movimento fisico, esposizione al sole per la vitamina D), a tal punto che la conclusione avrebbe potuto essere opposta: nei paesi nordeuropei è molto diffusa l’osteoporosi nonostante il grosso consumo di latticini e non per loro causa (e poi non sono stati differenziati: bovini, ovini, caprini?). E’ infatti vero che i latticini bovini, in una dieta scorretta e acidificante, smobilitano calcio dalle ossa, ma nell’ambito di una dieta e stile di vita corretti (e dunque in soggetti non sovrappeso e con una dieta alcalinizzante) forniscono una fonte primaria di calcio biodisponibile, per non parlare della indispensabile vitamina B12, che nei latto-ovo-vegetariani deriva soprattutto dai latticini. E infatti, cosa che fra l’altro disorienta molto noi lettori delle ricerche, ci sono stati studi successivi, con una visione più ampia, che hanno smentito questa demonizzazione dei latticini.

Come abbiamo già visto, di fronte alle centinaia di sostanze chimiche biologicamente attive presenti in un semplice ortaggio, non possiamo non porci il problema delle loro interazioni e soprattutto sinergie riguardo gli effetti che hanno sul nostro organismo. Il problema diventa poi più complesso se si pensa che quell’ortaggio lo consumiamo con decine di altri cibi, e ancora di più la complessità cresce in maniera esponenziale se pensiamo ai diversi stili di vita di chi li consuma. E’ chiaro che è inutile incentrare una ricerca solo su una o due fra quelle centinaia di sostanze, magari somministrandola a dosi da elefante per brevissimi periodi a un povero topino di laboratorio (“per verificare subito se ha qualche effetto”) a fronte di un consumo reale di piccole dosi magari per una vita (con la tipica conclusione “sì, questo alimento fa bene… ma bisognerebbe mangiarne dieci chili al giorno…”, subito smentita dalla realtà quotidiana). Occorre proseguire nel cambiamento e miglioramento del metodo di studio, poichè è evidente che la scienza non riesce ancora a ben standardizzare il meccanismo della rete di sinergie alimentari che il nostro organismo utilizza quotidianamente per mantenersi in salute.

Un’immagine che rappresenta bene come la ricerca scientifica sugli alimenti stia cercando da decenni di migliorarsi è l’evoluzione di come la scienza pensava e pensa di poter “ricreare” un alimento naturale, ad esempio un pomodoro, o una susina. Molti decenni fa si credeva che bastassero un agglomerato di acqua, fibre, un po’ di zuccheri, qualche minerale e qualche sale nelle giuste proporzioni, e per l’organismo i due alimenti avrebbero dovuto essere indistinguibili. Poi nella prima parte del novecento si aggiunsero le vitamine (negli anni sessanta si pensava di poter prevenire e guarire qualsiasi malattia con dosi esagerate di vitamine), poi via via composti chimici più complessi, come gli antiossidanti, per dare ai nostri pomodoro e susina un aspetto più vicino alla realtà. Ancora oggi continuano a essere però dei surrogati, delle controfigure di quelli originali, nonostante la spruzzatina di licopene renda il quasi-pomodoro più rosso e gli antociani la quasi-susina più blu. Se cioè la scienza li ricreasse mettendo insieme tutte le conoscenze attuali l’organismo se ne accorgerebbe subito, e infatti gli stessi ricercatori ammettono che molte interazioni e sostanze ci sono ancora sconosciuti. Ricordate i film di fantascienza (che riflette sempre il livello scientifico dell’epoca) degli anni sessanta? Gli astronauti si nutrivano di pillole colorate e un po’ d’acqua. Oggi il cibo spaziale viene rappresentato da informi gelatine colorate. Il nostro pomodoro e la nostra susina sono ancora ben lontani.

Come orientarci, insomma, fra la miriade di studi che traggono spesso conclusioni che litigano l’una con l’altra? Non ci possono essere due risultati in contraddizione fra loro, perchè vuol dire che uno dei due è sbagliato (o entrambi). O è sbagliato il metodo. Nel dubbio, e mentre applichiamo nuovi metodi scientifici a nuove ricerche più complete che risolvano i dilemmi, seguiamo la nostra millenaria tradizione alimentare basata su alimenti naturali o il meno elaborati e artificiali possibili, costruita da milioni di prove, tentativi, insuccessi e successi dei nostri avi, in una lunga sequenza di inconsapevoli “studi” e selezioni.
Non siamo certo giunti all’evoluzione definitiva del nostro apparato digerente e neppure alla comprensione di tutto quello che vi accade, e anche se molto aiutati negli ultimi anni dalla ricerca scientifica, siamo sempre qui a fare prove e tentativi per armonizzarci con la natura. Seguire la semplicità e la tradizione di una sana alimentazione naturale, pur con un occhio attento alle ricerche, è un buon compromesso di salute mentre si prosegue il cammino.


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